Da mesi sappiamo di essere alla vigilia di una rivoluzione senza precedenti in sanità. Con le risorse del Recovery Plan, infatti, avremo la possibilità di intervenire su quegli aspetti del Servizio sanitario nazionale che vanno implementati o ripensati alla luce dei nuovi bisogni.
Ora che il Pnrr, il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza è stato scritto e presentato all’Europa, Sanitask ha voluto tornare sull’argomento, affrontando in particolare il nodo del territorio e l’identità dei professionisti che vi saranno impiegati.
Nell’ultima puntata di Sanitalk un panel di esperti si è infatti interrogato sulla messa a terra del progetto: al di là degli obiettivi ambiziosi e dei numeri da capogiro, quali sono le indicazioni pratiche per trasformare questo sogno collettivo in realtà?
In apertura è Domenico Crisarà, vice segretario nazionale della Fimmg (la Federazione italiana medici di medicina generale), a tirare il freno: “La pandemia ha impresso un’accelerazione all’evidenza che la medicina generale debba essere ristrutturata, fornendole nuove opportunità a livello di personale, piattaforme informatiche e strumentazione per gli accertamenti di primo livello – ha ricordato – Oggi c’è il rischio che le aspettative sul Pnrr vengano deluse: noi siamo convinti che i problemi non si risolvano accorpando i sistemi, ma mantenendo la capillarità e la prossimità al cittadino. Ma, per farlo, il medico di medicina generale deve essere affiancato da altre professionalità e la medicina del territorio deve essere integrata con l’ospedale”.
Professionisti sul territorio
A proposito di territorialità e di nuove professionalità, nel mese di luglio compirà un anno la figura dell’infermiere di famiglia e comunità introdotto con il decreto Rilancio. Una figura che in realtà in molti casi esisteva già, seppur con un nome diverso. “Si tratta di un professionista con una serie di competenze aggiuntive in grado di riparare la frattura che esiste tra cittadino e i servizi che si trova a dover percorrere”, ha detto Nicola Draoli, consigliere nazionale Fnopi (la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche). Per Draoli sono due gli aspetti su cui è necessario agire: mettere a fattor comune le tante esperienze virtuose che esistono sul territorio nazionale e definire un livello organizzativo che lavori su determinate filiere. Esiste poi una questione che riguarda i numeri: il decreto Rilancio prevedeva l’inserimento di circa 10.000 infermieri di comunità. La Federazione stima ne servano almeno 21.000. Con le risorse stanziate all’interno del decreto crediamo non sin vada oltre il finanziamento del 10-15% del fabbisogno”.
Chiara Serpieri, vicepresidente Fiaso (la Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere) e direttore generale dell’Asl Vco, ha ricordato che oggi chi si occupa di programmazione sanitaria dovrebbe calcolare la distanza dei cittadini dai servizi non solo in termini di chilometri, ma valutando anche il tempo che occorre per percorrerli e la possibilità di farlo (per esempio con mezzi pubblici). “I professionisti devono imparare a evolvere la propria professionalità in base alla domanda che si trovano davanti – ha sintetizzato Serpieri – Oggi più che mai è importante riuscire a seguire un paziente riuscendo a inserirlo nel suo contesto di vita”.
Nuove professionalità e nuove modalità di lavoro
Michelangelo Caiolfa, esperto Federsanità Anci Toscana, ha posto l’attenzione sui processi da cui dipende la qualità delle cure. Per farlo, “è necessario pensare a incrementare in modo importante il personale, sia clinico sia amministrativo – ha ricordato – Servono poi figure “non canoniche”, come ingegneri gestionali, data analist, esperti di innovazione, comunicatori… Nel Pnrr si parla di reti di prossimità: dovremmo iniziare a discutere di come attivarle e mantenerle”.
Per Americo Cicchetti, direttore Altems, “durante la pandemia abbiamo osservato un’estrema variabilità nei modelli di risposta delle Regioni: aree simili come possono essere la Lombardia, l’Emilia Romagna e il Veneto hanno messo in campo modelli organizzativi diversi, che poi sono quelli che avevano a disposizione”. Dal suo osservatorio, Cicchetti ha notato che i professionisti hanno imparato in fretta a lavorare sulle procedure, compiendo un grande passo in avanti culturale, e hanno iniziato a usare fin da subito la telemedicina e il teleconsulto. Mi auguro che prima di partire ci sia spazio per la riflessione e l’analisi dei fabbisogni delle Regioni. Solo così, infatti, si può pensare di costruire qualcosa di davvero utile”.
Il presidente della Sifo (Società italiana di farmacia ospedaliera) Arturo Cavaliere ha ricordato che il Centro studi della sua società scientifica sta lavorando a “un nuovo sistema di distribuzione universale di domiciliazione delle cure con partnership pubblica e privata per rendere etico e accessibile erogazione e monitoraggio di un farmaco favorendo la completa presa in carico del paziente sul territorio con un modello digitalizzato e di rete”. L’idea è che tutti i flussi sanitari confluiscano in un unico cruscotto cui può accedere anche il farmacista per monitorare la terapia e l’aderenza e favorire l’assistenza integrata del paziente.
Rischio disparità
Per Emanuele Ciotti, presidente Card Emilia Romagna e direttore sanitario Asl Ferrara, “il management durante la pandemia ha dimostrato una grande capacità di adattamento che però, da sola, non basta. Sono due le sfide principali: assumere nuove figure in grado di accompagnare il middle management e di supportarlo nelle decisioni e investire sulle soft skill e sulla capacità di lavorare in gruppo”.
Per Stefano Reggiani di Anmdo e direttore generale ospedale di Sassuolo, “parlare di territorialità significa interrogarsi su un uso appropriato dell’ospedale. Il mio timore è che si determini un’ulteriore disparità, con le Regioni più virtuose che faranno sempre meglio e con quelle che hanno difficoltà che non riusciranno a colmare il gap a meno che non si introducano correttivi”.
Un aspetto cruciale riguarda poi la governance: “Come Card riteniamo che debba essere pubblica e distrettuale – ha sottolineato Ciotti – con il direttore di distretto affiancato da uno staff e da un’infrastruttura che lo supporti”.
Per quanto riguarda i medici di medicina generale e l’ipotesi di farli diventare dipendenti pubblici, Crisarà ha ricordato che “questo non esiste in nessun Paese europeo. Riteniamo che debba essere rivista la formula contrattuale in modo premiale in base ai risultati di salute ottenuti, ma che non si debba privare il cittadino della libera scelta del mmg da cui farsi seguire. Noi come Fimmg siamo disponibili a discutere su come fare evolvere tutti insieme il sistema delle cure territoriali”.
Le sfide sul piatto
In chiusura, Cavaliere ha ricordato che i dati Ocse hanno evidenziato come, sebbene l’Italia negli ultimi 10 anni abbia aumentato del 130% gli investimenti in formazione continua post universitaria sia ancora agli ultimi posti in Europa: solo 1 giovane su 5 si forma e solo 5 aziende su 10 investe in formazione. “La formazione indispensabile in ogni settore strategico lo è ancora di più in sanità perché ha un solo significato: salvare la vita delle persone”.
Serpieri ha poi sottolineato come il management sanitario sia in grado di “esprimere capacità e modalità per affrontare i problemi di cui stiamo parlando oggi. Se fossero stati più ascoltati e avessero avuto più risorse continuative nel tempo, sono sicura che avremmo avuto risultati diversi nel periodo pandemico. Posso dire che oggi i nostri professionisti sono pronti e aspettano solo di essere coinvolti”.