(Reuters Health) – L’ipotermia offre solo un modesto beneficio per i pazienti in coma che sono stati rianimati da arresto cardiaco con un ritmo non defibrillabile. È quanto emerge dallo studio Hyperion condotto su 581 pazienti in 25 unità di terapia intensiva francesi e pubblicato dal New England Journal of Medicine.
Solo il 5,7% di quelli non trattati con ipotermia ha registrato un punteggio favorevole di 1 o 2 sulla scala della categoria della prestazione cerebrale a 6 punti entro il giorno 90; il 10,2% dei pazienti le cui temperature corporee sono state abbassate a 33° C per 24 ore ha avuto un punteggio di 1 o 2 (P = 0,04). Tuttavia, la mortalità a 90 giorni per i due gruppi è stata praticamente identica: 81,3% con ipotermia e 83,2% senza.
Un punteggio di 1 indica una disabilità minore. Un punteggio di 2 indica una disabilità moderata. Il tempo mediano alla randomizzazione è stato di 233 minuti nel gruppo ipotermia e 219 minuti nel gruppo controllo. L’ipotermia è in genere iniziata 16 minuti dopo la randomizzazione. Il protocollo per indurre e mantenere l’ipotermia non è stato controllato.
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Il miglior trattamento della temperatura per questo gruppo non è chiaro. Mentre le linee guida dell’International Liaison Committee on Resuscitation richiedono la terapia in ipotermia per tutti i pazienti con coma dopo una rianimazione di successo per arresto cardiaco, recenti studi sulla questione hanno prodotto risultati contrastanti.
“Questa incertezza richiede una risoluzione, perché i ritmi non defibrillabili ora prevalgono tra i pazienti con arresto cardiaco e sono associati a una prognosi sfavorevole, con solo il 2-15% dei pazienti con buoni risultati neurologici, rispetto a quasi il 65% dei pazienti che hanno un arresto cardiaco con un ritmo defibrillabile”, ha scritto il gruppo di ricerca, guidato da Jean-Baptiste Lascarrou del Centro ospedaliero universitario di Nantes.
Le analisi dei sottogruppi non hanno mostrato tendenze evidenti. In circa i due terzi dei pazienti, la presunta causa di arresto cardiaco era non cardiaca; l’asfissia è stata la causa in circa il 55% dei casi.
La causa più comune di morte è stata la sospensione dal supporto vitale, che si è verificata in oltre il 61% dei pazienti.
I tassi di sopravvivenza alla dimissione in terapia intensiva e la sopravvivenza alla dimissione in ospedale non sono state significativamente differenti tra i due gruppi. “Non abbiamo rilevato effetti dannosi significativi dell’ipotermia a 33°C rispetto alla normotermia mirata”, ha concluso l’esperto.
Fonte:N Engl J Med 2019
Reuters Staff
(Versione italiana per Daily Health Industry)