HIV, è ancora emergenza: “Scarsa informazione, pochi test e tanto stigma”

Alla vigilia del 2025 c’è ancora chi pensa che si possa contrarre l’HIV respirando la stessa aria di una persona infetta: ne è convita il 5,2% della popolazione. Una percentuale più che doppia, per la precisione l’11,8%, crede che sia sufficiente usare i bagni in comune con persone con HIV. Il 14,5% pensa che basti baciare una persona con HIV in modo appassionato e il 16,6% essere punti da una zanzara che prima ha punto una persona con HIV. In altre parole, c’è ancora tanta confusione e, soprattutto, disinformazione sulla trasmissione del virus. L’informazione è scarsa anche sulle strategie di prevenzione e profilassi pre-esposizione (PrEP), conosciuta solo dal 6,7%, e dei servizi che si possono trovare nei checkpoint (43,5%), presidi territoriali di cui il 56,5% non conosce l’esistenza.

Il quadro emerge da un’indagine demoscopica realizzata da AstraRicerche per Gilead Sciences su un campione di oltre 1.500 persone fra i 18 e i 70 anni, i cui dati sono riportati all’interno del Libro Bianco “HIV. Le parole per tornare a parlarne”, presentato a Roma in occasione dell’evento “HIV. Dalle parole alle azioni. Insieme per porre fine all’epidemia”. Realizzato con il contributo di clinici, associazioni e rappresentanti delle Istituzioni, il libro bianco parte da quattro parole chiave: prevenzione, stigma, checkpoint e qualità di vita. Lo scopo del volume è riportare l’attenzione sull’HIV, di riprendere il dibattito su problematiche ed esigenze ancora presenti e di proporre azioni concrete nella lotta a questa infezione. Il libro e l’evento si inseriscono nell’ambito della campagna “HIV. Ne parliamo?” iniziativa promossa da Gilead Sciences con il patrocinio di 17 Associazioni di pazienti, la Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT) e l’Italian Conference on AIDS and Antiviral Research (ICAR).

“La prevenzione è il principale strumento che oggi abbiamo a disposizione per combattere l’HIV – dice Barbara Suligoi, Direttore Centro Operativo AIDS (COA) dell’Istituto Superiore di Sanità –. Le terapie di cui disponiamo sono molto efficaci, ma assicurano risultati migliori se assunte quando la persona ha contratto l’infezione da poco tempo. In Italia, purtroppo, due persone su tre scoprono di essere sieropositive quando la patologia è già in uno stadio avanzato. Per questo, chiunque abbia avuto un comportamento sessuale il rischio deve fare immediatamente il test – suggerisce l’esperta -. Allo stesso tempo, non dobbiamo dimenticare che il preservativo è uno strumento essenziale che consente di proteggerci non soltanto dall’Hiv, ma anche da altre infezioni sessualmente trasmesse. È necessario che sull’argomento si incentivi la sensibilizzazione dei medici di medicina e di tutti gli specialisti che entrano in contatto quotidianamente con tanti pazienti. Laddove vengano ravvisati dei fattori di rischio, dovrebbero proporre immediatamente dei test per l’HIV”, consiglia ancora la dottoressa Suligoi.

Ad ampliare la prevenzione punta la proposta di legge (Interventi per la prevenzione e la lotta contro l’HIV, l’AIDS, l’HPV e le infezioni e malattie a trasmissione sessuale), presentata dall’On. Mauro D’Attis, Componente V Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione della Camera dei deputi. “La proposta di legge, tra l’altro condivisa, con l’abbinamento di altri testi, è ferma in Commissione Affari Sociali. Si tratta di un lavoro di alcuni anni. Mi auguro che il 1° dicembre del 2024 sia l’ultima giornata mondiale contro l’Aids senza una nuova legge. Quello che ci viene chiesto è appunto uno strumento che innovi la 135 del ‘90 e che doti il Paese di nuovi strumenti per combattere l’Hiv, l’Aids, l’Hpv e le malattie sessualmente trasmissibili”, spiega l’On. D’Attis.

Inserire l’educazione alla salute in tutte le scuole è, invece, l’intenzione dell’On. Ilenia Malavasi, Componente XII Commissione Affari Sociali della Camera dei deputati: “Tra le ultime proposte avanzate da questo Governo c’è l’inserimento di 30 ore di educazione sessuale extracurricolari, ovvero a discrezione degli studenti e dei loro genitori, che potranno decidere se frequentarle o meno. Ma credo che non sia abbastanza: l’educazione alla sessualità dovrebbe diventare una materia obbligatoria, assieme ad un’educazione sanitaria di base che promuova la prevenzione primaria e, quindi, una corretta conoscenza degli stili di vita sani. Solo un cittadino consapevole può essere realmente responsabile del prendersi cura della sua salute e di quella altrui”.

I dati sulle nuove infezioni diagnosticate ogni anno, oltre 2mila secondo gli ultimi dati dell’Istituto Superiore di Sanità, ci indicano quanto sia fondamentale tornare a parlare di prevenzione: non solo non si riesce ad abbassare in maniera sostanziale questo dato, ma il 60% di queste nuove diagnosi risulta tardiva. Si tratta quindi di persone che sono arrivate alla diagnosi quando le loro condizioni di salute erano già compromesse e spesso già in presenza di sintomi o di malattia conclamata. “In Italia si stima vi siano ancora più di 10mila persone che non sanno di avere il virus – dice Andrea Antinori, Direttore Dipartimento Clinico, Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani IRCCS di Roma -. Per riuscire a mettere in campo delle strategie di prevenzione efficaci, che consentano di far emergere questo sommerso e bloccare di conseguenza la catena dei contagi, dobbiamo lavorare sulla cultura della percezione del rischio, incentivando l’utilizzo degli strumenti di prevenzione a nostra disposizione, come il test dell’HIV, il profilattico e la profilassi farmacologica, aumentando la capillarità di azione, moltiplicando e sostenendo i checkpoint, anche e soprattutto con risorse pubbliche; abbiamo insomma bisogno di un esercito di stakeholder in cui ognuno faccia la sua parte. Attualmente, da quando la malattia non è più considerata mortale, la percezione del rischio si è abbassata. Invece, ognuno di noi può essere potenzialmente a rischio e per questo, di tanto in tanto, sarebbe necessario sottoporsi ad un test per l’HIV. Il test dovrebbe entrare nella vita delle persone: si tratta di un atto semplice che è anche un gesto di generosità, di civiltà, di autoconoscenza e di autoconsapevolezza. Ecco – incalza il dottor Antinori – il test dev’essere proposto in modo positivo, come una sorta di responsabilità civile nei confronti della propria salute e di quella altrui. Non deve essere vissuto come un momento di stigmatizzazione, di allontanamento, in cui ci sente esposti al pregiudizio ed al giudizio degli altri. Abbiamo bisogno di avvicinare le persone ai test, così da far emergere le diagnosi sommerso che oggi rappresentano la vera emergenza da affrontare”.

Sulla necessità di ‘normalizzare’ l’HIV è concorde anche Rosaria Iardino, Presidente Fondazione The Bridge: “Dobbiamo uscire dall’emergenza e per farlo sono necessarie alcune strategie, come ad esempio la rimozione del consenso informato scritto, permettendo al medico di indagare, colloquiando con il paziente, come si fa per tutte le altre patologie. Ancora, per raggiungere l’obiettivo ‘zero morti-zero casi di HIV’ è necessario ampliare l’accesso ai test anche ai minori di 18 anni, ed alla Prep a tutte quelle comunità vulnerabili ed ai senza fissa dimora”.

Aver smesso di parlare di HIV significa che non sono passate nella popolazione generale alcune verità scientifiche, come quella che si indica con la sigla U=U (Undetectable=Untransmittable): le persone con HIV che hanno la carica virale non rilevabile non possono trasmettere il virus. Un concetto fondamentale che conosce solo il 22,9% della popolazione, come risulta dall’indagine di AstraRicerche.  “L’efficacia delle terapie, e quindi un concetto come U=U, sono strumenti potenti anche contro lo stigma che purtroppo ancora oggi circonda chi vive con HIV – afferma Davide Moschese, Dirigente medico presso il Dipartimento di Malattie infettive Ospedale Luigi Sacco di Milano. “È innegabile, infatti, che lo stigma sia legato anche al timore di trasmissione del virus. Lo stigma non solo non va sottovalutato, ma è fondamentale combatterlo tramite la divulgazione corretta delle conoscenze scientifiche, per aumentare la consapevolezza sui propri comportamenti, favorire l’aderenza alle terapie e abbassando così il muro dell’isolamento sociale”.

Informazione, possibilità di eseguire il test, di accedere alla PrEP, supporto psicologico e possibilità di confronto fra pari. È quanto si può trovare nei checkpoint, luoghi gestiti dalla comunità per la comunità, che svolgono un ruolo fondamentale sul territorio, raggiungendo anche chi ha difficoltà a rivolgersi al servizio sanitario. Una realtà poco conosciuta – secondo l’indagine AstraRicerche solo il 43,5% ne ha “sentito parlare”, mentre il 56,5% non ne conosce l’esistenza – e scarsamente riconosciuta dalle Istituzioni nonostante il servizio offerto a persone che non si sarebbero altrimenti rivolte alla sanità pubblica.

“I checkpoint hanno un ruolo fondamentale nella lotta all’ HIV e per la promozione della salute sessuale – spiega Daniele Calzavara, Coordinatore Milano Check Point ETS -. Sono un presidio territoriale fatto dalla comunità per la comunità, luoghi aperti, inclusivi, sicuri, privi di discriminazioni. E per questo arrivano a tutte quelle popolazioni che sono difficilmente raggiunte dal Sistema Sanitario Nazionale e dai servizi offerti dalle Istituzioni. In questo modo riusciamo a offrire servizi per salute la portata per tutte le persone e con un servizio di eccellenza e di comunità. L’aspetto comunitario è ciò che lo differenzia dagli altri servizi per la salute sessuale pubblici e istituzionali, che hanno un approccio verticale, dal medico verso l’utente. Al contrario, nel checkpoint gli interventi e le relazioni sono orizzontali, fra persone alla pari, l’operatore e l’utente parlano e interagiscono sullo stesso livello”, aggiunge il Coordinatore Milano Check Point ETS.

Per Filippo Leserri, Presidente Plus Roma, “il checkpoint è un avamposto della prevenzione, una postazione privilegiata per poter arrivare alle persone in maniera efficace. Il lavoro di ascolto e di informazione che qui viene fatto ribalta la prospettiva della prevenzione: il nostro obiettivo non è solo quello di combattere le infezioni, ma anche di consentire alle persone di vivere la loro sessualità in maniera libera e consapevole, e così ridurre la diffusione del virus. Il nostro assunto è che il sesso, come ogni piacere, potrebbe comportare dei rischi, che tuttavia possono essere limitati, scegliendo tra tutti gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione, quello che risponde meglio ai propri bisogni”. Sandro Mattioli, Presidente Plus – Rete Persone LGBT+ Sieropositive APS, evidenzia come da tempo si sostenga “la necessità di una legge regionale che chiarisca cos’è un checkpoint, ne definisca il perimetro di azione nella logica della sussidiarietà orizzontale con le istituzioni pubbliche e, considerando che l’attività primaria è di tipo sociale, precisi le regole per la parte di attività sanitaria. Purtroppo, come sappiamo bene, l’HIV è oggi un tema di scarso interesse politico”.

La scarsa conoscenza dell’HIV da parte degli italiani fa sì che poca sia la consapevolezza delle difficoltà che le persone che convivono con il virus devono affrontare ogni giorno, sia dal punto di vista dello stato di salute sia da quello della vita sociale. La diagnosi tempestiva e l’aderenza alle terapie consentono alle persone con HIV di avere una aspettativa e una qualità di vita simile a quella di chi non ha il virus: un risultato impensabile solo qualche decennio fa, che oggi apre però nuove questioni in termini di qualità di vita. “Quello della qualità di vita è un concetto multidimensionale che necessita di un approccio personalizzato e paziente-centrico – dichiara Anna Maria Cattelan, Direttore UOC Malattie Infettive Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova -. Solo attraverso il dialogo tra persona con HIV e medico – purtroppo ancora non ottimale – si possono esplorare aspetti come l’affettività, le problematiche psicologiche-sociali o la salute sessuale che sono parte integrante della qualità di vita. Serve dunque un approccio integrato e multidisciplinare che preveda la presenza anche di altre figure come l’infermiere, lo psicologo e l’assistente sociale, per trattare il tema sotto ogni aspetto”.

“Da sempre il nostro impegno è stato quello di costruire un futuro libero dall’HIV – dice Frederico Da Silva, General Manager e Vice President di Gilead Sciences Italia -. Oggi però questa epidemia appare dimenticata, uscita dal dibattito pubblico. Ecco perché riteniamo che sia cruciale continuare ad impegnarci per garantire innovazione terapeutica nella prevenzione, trattamento e cura dell’HIV e fondamentale collaborare con la comunità scientifica, le associazioni e le istituzioni, per far sì che si torni a parlarne. Ma non basta, dobbiamo farlo con linguaggio rinnovato e diverso per contribuire a raggiungere quanto prima l’obiettivo UNAIDS di porre fine a questa infezione, per tutti e in tutto il mondo, conclude Da Silva.

 

di Isabella Faggiano

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