Per arrestare la naturale perdita dell’osso che si verifica a seguito dell’estrazione di uno o più denti si può riempire lo spazio lasciato vuoto con particolari materiali biocompatibili come l’osso bovino. La pratica serve ad evitare un pericoloso riassorbimento osseo che può anche compromettere l’eventuale inserimento di un impianto per sostituire i denti estratti. A rivelarlo sono due lavori pubblicati rispettivamente sulla rivista Clinical Oral Implants Research (settembre 2016) e sulla rivista Clinical Implant Dentistry and Related Research (dicembre 2017), dal gruppo di ricerca clinica coordinato da Ludovico Sbordone, Presidente del Corso di Laurea in Odontoiatria e Protesi Dentaria dell’Università degli Studi di Salerno e socio della Società Italiana di Parodontologia e Implantologia.
Il cuore del problema, spiega Sbordone, è che dopo un’estrazione dentaria, anche se effettuata con la massima attenzione per evitare fratture traumatiche del margine osseo, l’osso “alveolare” tende naturalmente a rimodellarsi, cioè a riassorbirsi, perché non più sottoposto alle stimolazioni derivanti dalla presenza del dente. Il riassorbimento provoca quindi una riduzione del volume osseo che potrebbe non rendere possibile l’inserimento di un impianto.
“La letteratura mostra che, anche nelle migliori condizioni iniziali e cioè in assenza di malattia parodontale pregressa, sei mesi dopo una estrazione dentaria vengono persi circa i due terzi dell’originario volume dell’osso che ospitava il dente”, spiega l’esperto. Per contrastare questa perdita di volume osseo contestualmente alla estrazione si può inserire nell’alveolo che ospitava il dente osso bovino “deproteinizzato”, materiale altamente biocompatibile. Anche altri biomateriali sono disponibili per l’uso clinico ma l’osso bovino deproteinizzato è quello maggiormente studiato in ricerca clinica.
Nei due studi citati, spiega Sbordone, “abbiamo controllato, in un campione di pazienti, l’evoluzione del riassorbimento dell’osso alveolare a sei mesi dall’estrazione, in presenza o in assenza di tecniche di conservazione dell’osso stesso”. Nel primo studio “abbiamo usato tecniche radiologiche – precisa l’esperto – mentre nello studio più recente una tecnica che prevede l’uso di scanner ottici e l’acquisizione di immagini elettroniche che hanno evitato al paziente l’esposizione a radiazioni”.
I risultati a sei mesi hanno dimostrato, nello studio del 2016, che l’utilizzo dell’osso bovino inserito nell’alveolo post-estrattivo si associa in media a un riassorbimento osseo del 9,9% nel campione, contro un riassorbimento più importante del 34,8% per i siti in cui dopo l’estrazione non viene inserito alcun biomateriale. I risultati sono stati confermati nel 2017. L’osso di derivazione bovina sembra quindi in grado di contrastare efficacemente il riassorbimento osseo post estrattivo, conclude Sbordone, con parecchi vantaggi per il paziente.