Tenere sotto controllo il virus dell’epatite B aumentando la sicurezza ossea e renale. È questo l’obiettivo di un nuovo farmaco in fase avanzata di test, i cui risultati di due studi (uno spagnolo e uno cinese) di fase III sono stati presentati durante il Congresso internazionale sul fegato dell’EASL (European Association for the Study of the Liver) in corso a Barcellona. Si chiama TAF (tenofovir alafenamide) ed è una terapia sperimentale. Si può considerare un’evoluzione del trattamento antivirale attualmente più usato a livello mondiale per combattere l’infezione, il tenofovir disoproxil fumarate (TDF), che presenta tra gli effetti collaterali tossicità ossea e renale.
La nuova molecola mantiene l’efficacia della precedente (riduzione significativa della quantità di virus presente nel sangue nel 95% dei casi a un anno), ma limita gli effetti collaterali. Si tratta infatti di un prodrug, che si attiva cioè solo una volta arrivato al fegato. In questo modo, si riduce la quantità di farmaco attivo che finisce in altri organi, in primis ossa e reni. Per ottenere la stessa efficacia (e minori effetti collaterali), inoltre, bastano 25 mg giornalieri di TAF contro i 300 mg del TDF.
Gli studi di fase III
I due trail randomizzati e in doppio cieco di fase III sono stati condotti su un periodo di 96 settimane e hanno confrontato le due molecole. Ai pazienti sono stati somministrati in modo casuale 25mg al giorno di TAF o 300 mg al giorno di TDF. Il nuovo farmaco ha dimostrato di avere la stessa efficacia di quello attualmente in uso, ma i pazienti che hanno ricevuto il TAF hanno sperimentato anche una diminuzione percentuale mediana significativamente inferiore della densità minerale ossea di anca e colonna vertebrale alla 48° settimana e hanno avuto cambiamenti minori nei marcatori tubulari renali rispetto al TDF.
“Questi due studi dimostrano che il trattamento con il tenofovir alafenamide è efficace e più sicuro di quello con il tenofovir disoproxil fumarate – evidenzia Maria Buti dell’Hospital General Universitari Vall d’Hebron di Barcellona, autrice principale di uno dei lavori – I pazienti con HBV richiedono un trattamento a lungo termine e siamo felici che questi risultati possano fornire una terapia potenzialmente più sicura in futuro”. Si stima siano circa 14 milioni le persone con epatite B cronica nella regione europea dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS).
Per validare i risultati saranno necessari follow-up più lunghi, ma questi risultati sono incoraggianti, soprattutto per una Paese come l’Italia, che ha la casistica più anziana al mondo di pazienti con epatite B: “L’età media di chi deve iniziare un trattamento nel Belpaese è di quasi 60 anni – ricorda Pietro Lampertico dell’università di Milano – Un over 60 su tre è iperteso o diabetico, per non parlare di chi soffre di osteoporosi. L’ultima cosa che vogliamo è peggiorare una patologia che non è dovuta al farmaco per l’infezione. Per la popolazione italiana avere a disposizione questa nuova molecola potrebbe essere un grosso vantaggio”.