È “emergenza internazionale di sanità pubblica” l’epidemia di Ebola in corso nella Repubblica democratica del Congo. A lanciare l’allarme è l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) al termine della riunione del Comitato di esperti istituito proprio dall’organizzazione, la quarta dall’inizio dell’epidemia nel paese africano, lo scorso ottobre.
Già a settembre dello scorso anno, l’Oms parlava di “possibile tempesta perfetta” che si sarebbe potuta scatenare nella Repubblica democratica del Congo a seguito di attacchi di gruppi armati e della resistenza da parte delle comunità a vaccinarsi, e così è stato. Nonostante l’autorizzazione da parte ministero della salute congolese della campagna vaccinale fosse arrivata a maggio 2017, fino ad oggi, a causa dell’ultimo focolaio, quasi 2.500 persone sono state contagiate in Congo, di cui 1.665 sono morte. E la situazione era stata giudicata particolarmente allarmante già nei giorni scorsi dopo il primo contagio avvenuto a Goma, grande città nell’est del Congo.
“La dichiarazione di emergenza sanitaria – ha precisato il direttore del Comitato Robert Steffen – è una misura che riconosce il possibile aumento del rischio nazionale e regionale, e il bisogno di una azione coordinata e intensificata per gestirlo”. A preoccupare gli esperti è l’espansione geografica dell’epidemia, con i casi che ora coprono un’area di 500 chilometri quadrati. “Nessun paese dovrebbe chiudere i propri confini o porre restrizioni ai viaggi o ai commerci – ha precisato Steffen – Queste misure sono implementate di solito in base alla paura e non hanno basi scientifiche”.
“I segnali sono chiari”, ha commentato Joanne Liu, presidente internazionale di Medici Senza Frontiere (MSF). “Le persone continuano a morire nelle comunità, gli operatori sanitari sono ancora infetti e la trasmissione del virus continua. L’epidemia non è sotto controllo e abbiamo bisogno di un cambio di marcia: ma questo non dovrebbe riguardare la restrizione agli spostamenti o l’uso della coercizione sulla popolazione colpita. Le comunità e i pazienti devono essere al centro della risposta, devono essere partecipanti attivi”.
“Dobbiamo fare un bilancio – ha proseguito Liu – di ciò che funziona e di ciò che non funziona. In un contesto in cui il tracciamento dei contatti non è completamente efficace e tutte le persone colpite non vengono raggiunte, è necessario un approccio su larga scala per la prevenzione, questo significa un migliore accesso alla vaccinazione per la popolazione per ridurre la trasmissione”.
La risposta, ha sottolineato il direttore generale Oms Thedros Adhanom Ghebreyesus, è stata ritardata anche dalla mancanza di fondi. “E’ tempo che il mondo prenda coscienza e raddoppi gli sforzi – ha affermato – Dobbiamo lavorare insieme in solidarietà con il Congo per mettere fine all’epidemia e costruire un sistema sanitario migliore. Un lavoro straordinario è stato fatto per quasi un anno nelle circostanze più difficili. Dobbiamo a questi operatori un contributo maggiore”.
Anche l’Unicef lancia un’allerta per la tragedia che sta colpendo in particolar modo i bambini: in Congo, 750 bambini sono stati colpiti dal virus Ebola (31% dei casi) ed il 40% ha meno di 5 anni. Questa epidemia, ha avvertito Marixie Mercado, portavoce dell’Unicef al Palazzo delle Nazioni a Ginevra, “sta contagiando un maggior numero di bambini rispetto alle precedenti”.
“Al 7 luglio, si erano verificati 750 contagi fra i bambini. Questo numero rappresenta il 31% del totale dei casi, rispetto a circa il 20% nelle epidemie precedenti. I bambini piccoli, con meno di 5 anni, sono particolarmente colpiti e a loro volta stanno contagiando le donne. Fra gli adulti, le donne rappresentano il 57% dei casi”.
Mercado ha inoltre sottolineato che il tasso di mortalità della malattia per i bambini con meno di 5 anni è del 77%, rispetto al 67% di tutti i gruppi di età: “Prevenire i contagi fra i bambini deve essere al centro della risposta all’Ebola”, ha affermato. E c’è anche un’altra grave emergenza che sta emergendo: “I bambini che sono rimasti orfani a causa della malattia hanno bisogno di cure e supporto a lungo termine, fra cui la mediazione con le famiglie allargate che – ha spiegato Mercado – si rifiutano di accoglierli”.
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