I ‘super-farmaci’ contro l’epatite C che hanno rivoluzionato la medicina e la vita dei pazienti sono sul mercato da una manciata di anni, ma la ricerca è tutt’altro che ferma: si continuano a sperimentare nuove combinazioni di molecole mirate ad agire su tutti e sei i genotipi del virus e a curare quei pazienti che hanno fatto registrare un fallimento con altri farmaci. Percentuali basse e proprio per questo difficili da intercettare: “Quando si ha un regime terapeutico cui risponde oltre il 95% delle persone, la cosa estremamente difficile è riuscire a studiare adeguatamente quella piccola quota dell’1-5% perché ciascun medico ha pochi pazienti con queste caratteristiche – spiega Stefano Fagiuoli, dell’Azienda socio sanitaria territoriale (ASST) Papa Giovanni XXIII di Bergamo – È quindi molto importante capire quali sono le cause di fallimento, individuare quali sono i ceppi di virus C resistenti alle attuali combinazioni di farmaci e stabilire strategie di rescue basate su 3 regole: usare il sofosbuvir come ‘scheletro’ della terapia, aggiungere ribavirina per aiutare la risposta e uno o più farmaci di una classe che non confligga con quella per cui c’è resistenza, oppure utilizzare molecole nuove”.
Al Congresso internazionale sul fegato dell’EASL (European Association for the Study of the Liver) in corso a Barcellona l’ottimismo è dilagante e si parla di eradicazione del virus nel giro di una generazione. Sono numerosi gli studi sulle nuove combinazioni presentati al meeting da esperti di tutto il mondo, che vanno nella direzione di farmaci pangenotipici e che impediscano di sviluppare resistenze.
“L’epatite C non è solo una malattia del fegato, ma è anche un disturbo fisico, mentale e sociale” afferma Rui Tato Marinho dell’Hospital S. Maria della Medical School di Lisbona, che ricorda come stigma e vergogna si mescolino in modo pericoloso: “A un mio paziente è successo che in spiaggia le altre persone presenti chiamassero la polizia perché avevano paura che contaminasse l’acqua. Un altro, un giovane ragazzo su cui non funzionava la terapia, si è ucciso”, ha aggiunto il clinico portoghese.
Il caso del Portogallo
Marinho ha portato avanti nel suo Paese la battaglia per l’universalizzazione dell’accesso alle cure per i malati di epatite C. L’anno scorso l’ha vinta e il Parlamento ha approvato il trattamento per tutti, indipendentemente dal livello di gravità della patologia di fegato. “Questo è stato possibile grazie alla presentazione di numeri che non si potevano ignorare e con il lavoro congiunto di medici e associazioni di pazienti. Il mio team quest’anno ha curato 300 persone, ed è bellissimo vedere guarire le persone dal virus”.
Nei prossimi mesi l’Italia dovrà rinegoziare il prezzo delle terapie con le aziende farmaceutiche e arriva da più parti l’invito a stringere un “patto sociale” in cui tutte le parti coinvolte si impegnino a garantire anche nel nostro Paese un accesso alle cure più efficiente e dove si dia al medico la responsabilità di stabilire l’ordine di priorità per i propri pazienti. In poco più di un anno sono stati curati oltre 40 mila pazienti gravi, ma “ora è necessario iniziare a programmare linee guida anche per persone che hanno malattie di fegato meno gravi, ragionare per casistiche di pazienti .- sostiene Ivan Gardini, presidente dell’associazione di pazienti EpaC – Penso per esempio alle donne che vogliono avere un figlio, oppure a pazienti che hanno una patologia concomitante, che in questo momento non rientrano nei criteri di inclusione stabiliti da AIFA. La nostra proposta è di istituire liste d’attesa gestite dai singoli centri per fornire ai malati un’orizzonte temporale di cura”.