Nell’attuale scenario di grave tensione, confusione e panico legati allo stato della pandemia di CoVid-19, Popular Science Italia ha intervistato su alcuni dei temi più scottanti relativi alla pandemia nel nostro Paese il colonnello Marco Lastilla dell’Ispettorato Generale della Sanità Militare (IGESAN), specialista in malattie infettive ed in igiene e medicina preventiva, professore di microbiologia all’università La Sapienza di Roma ed attuale direttore dell’Osservatorio Epidemiologico della Difesa.
Sono state sollevate svariate ipotesi sull’origine del SARS-CoV-2: quali di esse sono maggiormente fondate secondo le evidenze scientifiche disponibili?
La circolazione temporale di questo nuovo virus, nella popolazione umana, può essere stimata nel pieno autunno del 2019, probabilmente prima dei cosiddetti primi casi del mercato di Wuhan di fine dicembre. Questa conclusione è stata riportata in un articolo scientifico del gruppo di Francois Balloux all’Istituto di Genetica di University College of London, pubblicato su Infection, Genetics and Evolution, basato su una complessa analisi di 7.666 sequenze del nuovo coronavirus, provenienti da numerosi Paesi di varie aree geografiche e raccolte fino al 20 aprile scorso. Il virus ha dunque una storia naturale di origine animale con un salto di specie già conosciuto per altri agenti biologici.
La paura per le conseguenze dell’infezione da CoVid-19 è ancora molto elevata, ma i messaggi che provengono dai media possono risultare fuorvianti. Cosa può dirci sulla letalità del virus?
La letalità associata a Covid-19 è collegata all’età avanzata dei pazienti e alle loro pregresse patologie. L’età è un fattore facile da misurare, tuttavia da sola ha scarso valore prognostico ed occorre valutare anche la complessiva fragilità (co-presenza di patologie croniche). Nel mondo occidentale ovvero l’allungamento dell’età media, per la possibilità di cure e terapie conservative per patologie croniche, paradossalmente ha creato soprattutto nel periodo inziale dello sviluppo pandemico i presupposti per un incremento di questo valore percentuale. Allo stato attuale anche, e soprattutto per la capacità di cura ed assistenza, questo valore soglia è diminuito. In Italia, ai primi di ottobre, solo l’1% di tutti i decessi per COVID 19 aveva un età inferiore ai 50 (fonte dati ISS). Il vero problema è quello di contenere sempre il numero di contagi della pandemia al fine di non avere un alto numero di accessi ospedalieri e trattamenti in terapie intensive che, seppur in valore proporzionale bassi, di fronte ad un numero elevatissimo di casi costituiscono un problema di sanità pubblica.
Uno dei messaggi più controversi che provengono dalle fonti più svariate e meno certificate riguarda la permanenza del virus sulle superfici. Cosa emerge dalle evidenze su questo punto?
Questa è una delle domande che più frequentemente viene posta, ossia quella relativa alla capacita di SARS-CoV-2, il nuovo coronavirus, di resistere sulla superficie di oggetti inanimati. La maggior parte degli studi scientifici sottolinea come tracce importanti di virus siano presenti non tanto nell’aria, quanto piuttosto sulle varie superfici. Per quanto importanti ed utili, questi studi hanno, un limite tecnico che consiste nella ricerca del patrimonio genetico del virus, e non della presenza di particelle virali integre. Questo dettaglio non è di poco conto, in quanto solo particelle virali integre sono in grado di infettare se entrano in contatto con il nostro organismo. In altre parole, il virus resta sicuramente presente su varie superfici anche per diverso tempo, ma non si può essere certi di quanto resti infettivo. Cito tra le azioni di contrasto al virus l’attività del Dipartimento Scientifico del Policlinico Militare del CELIO, uno studio su un dispositivo medico a LED in grado di emettere una speciale combinazione di frequenze nello spettro della luce visibile che, secondo le prime evidenze scientifiche raccolte nei laboratori del Dipartimento, in 60 minuti inattiverebbe del 99,8% la presenza del virus SARS-COV2 in condizioni sperimentali. I test attualmente in corso su questo dispositivo vanno a favore della salute pubblica.
Che tipo di immunità viene sviluppato dalle persone che hanno contratto l’infezione?
Anche questa domanda resta ancora irrisolta, ovvero la durata dell’immunità acquisita. Da più studi sta emergendo che l’immunità protettiva contro Sars-CoV2 può essere di medio-breve durata. Uno studio interessante è stato appena pubblicato su Nature Medicine, e questa volta ha indagato gli altri quattro coronavirus umani in circolazione. La reinfezione (che significa nuovo contatto con il virus e non per forza nuova malattia) con lo stesso coronavirus stagionale si è verificata frequentemente, circa un anno dopo l’infezione iniziale. In alcuni casi le reinfezioni si sono verificate già a sei mesi e nove mesi (mai nei primi tre mesi). I risultati dello studio suggeriscono che sia necessario approfondire ancora di più questo aspetto al fine di identificare le giuste strategie, comprese le prossime strategie vaccinali, valutando anche la capacità neutralizzante degli anticorpi stessi.
E’ stato ipotizzato che il SARS-CoV-2 possa assumere un andamento stagionale simile a quello delle epidemie influenzali annuali: quale fondamento potrebbe avere questa teoria?
Sars-Cov-2 diventerà un virus stagionale o continuerà a circolare durante tutto l’anno? Benché nei Paesi dove l’estate sta per concludersi una risposta a questo quesito sia già arrivata attraverso l’evidenza dei dati, la spiegazione a quello che resta uno dei temi più dibattuti di questa pandemia arriva da una nuova ricerca pubblicata su Frontiers in Public Health, nella quale i ricercatori hanno preso in esame le attuali conoscenze relative alla stagionalità dei virus respiratori, inclusi i coronavirus, e i fattori che regolano il loro andamento, oltre alle proprietà di Sars-Cov-2 e il potenziale impatto delle condizioni meteorologiche sulla sua diffusione. E probabile che una volta acquisita una immunità di prevalenza attraverso l’infezione naturale e/o la vaccinazione, il numero di riproduzione di base (R0), cioè il numero di casi secondari risultanti da un caso primario in una popolazione suscettibile, diminuisca in modo sostanziale, rendendo il virus più incline alle fluttuazioni stagionali.
Quale differenza sussiste fra l’andamento della pandemia nei mesi di marzo-aprile e quello nei mesi di settembre-ottobre nel nostro Paese?
Siamo efficaci grazie a tracciamento e monitoraggio attivo. Anche se con numeri assoluti sovrapponibili, la situazione pur destando preoccupazioni appare diversa rispetto ai primi, durissimi mesi di Covid-19. Prima di tutto sono cambiate le condizioni generali: prima con i tamponi facevamo la diagnosi dei sintomatici, almeno un quinto in meno dei test diagnostici attuali, oggi grazie al tracciamento e al monitoraggio attivo siamo molto più efficaci. Tradotto in parole semplici, allora si vedeva solo una minima punta dell’iceberg, più o meno il 10% dei casi totali, mentre attualmente possiamo ipotizzare di identificarne il 50-60% (la seconda percentuale è una ipotesi ottimistica) delle persone che hanno contratto l’infezione. Per questo motivo occorre comunque sempre mantenere le misure di barriere, uso delle mascherine, distanziamento e lavaggio della mani.