C’è una falla nell’albero genealogico dell’Homo Sapiens: cade il ramo che rappresentava il suo antenato più prossimo, l’Australopithecus sediba. Eppure, non troppo tempo fa, nel 2013, ben sei articoli pubblicati su Science lo indicavano come il progenitore più vicino
all’uomo lungo la scala evolutiva, ma i nuovi dati presentati negli Stati Uniti dall’Associazione americana di antropologia fisica disegnano un quadro completamente diverso.
Alla luce della nuova analisi dei fossili riportati da Science sul suo sito, gli esperti considerano l’Australopithecus sediba più vicino agli ominidi, i cui resti sono stati scoperti
in Sudafrica. Lì, nel sito di Malapa, nel 2008 erano stati scoperti anche i resti dell’Australopithecus sediba e nel 2010 erano stati considerati gli unici in grado di completare il ‘vuoto’ di reperti nel periodo compreso fra 2 e 3 milioni di anni fa, quando gli australopiteci hanno cominciato ad evolversi nel genere Homo. E’ una ricostruzione molto difficile perché i resti più antichi di un esemplare di Homo risalgono a 2,9 milioni di anni fa e sono decisamente incompleti.
La nuova analisi dei resti dell’Australopithecus sediba indica che quest’ultimo era troppo giovane per essere considerato un progenitore dell’uomo. A condurla è stato il paleoantropologo Bill Kimbel, dell’università dell’Arizona a Tempe, che ha dimostrato che lo scheletro era ancora in via di formazione e di conseguenza troppo indefinito per consentire qualsiasi tipo di conclusione. E’ dello stesso parere Yoel Rak, dell’università israeliana di Tel Aviv, secondo il quale non è improbabile che il giovane australopiteco potesse cambiare radicalmente i tratti facciali nell’età adulta, proprio come accadeva a un suo simile, l’Austrapithecus africanus.
Non sono d’accordo gli autori delle ricerche pubblicate nel 2013, come Darryl de Ruiter, dell’università del Texas. Ma l’unico modo per risolvere la vicenda resta ormai la scoperta dei resti di un esemplare adulto di Australopithecus sediba.