Ricerche sempre più numerose suggeriscono che lo studio degli occhi possa fornire informazioni utili sulle patologie del neuro-sviluppo o sulle malattie neuro-degenerative. Uno studio pubblicato quest’estate dalla rivista Frontiers in Neuroscience suggerisce, per esempio, un’associazione tra il funzionamento della retina e l’attività neuronale nei soggetti con disturbo dello spettro autistico e con disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Lo studio della retina, per quanto interessante, potrebbe però presentare degli inconvenienti, come nota in un’intervista a Popular Science Paola Binda, che nel suo laboratorio analizza invece il funzionamento della pupillla.
Nel lavoro apparso su Frontiers i ricercatori hanno analizzato la forma d’onda dell’elettroretinogramma (che mostra il comportamento della retina in seguito ad uno stimolo luminoso) di 55 soggetti con disturbo dello spettro autistico, di 15 perone con disturbo da deficit di attenzione e iperattività e di 156 soggetti di controllo.
Gli autori hanno riscontrato delle differenze tra i tre gruppi e hanno supposto che l’approccio metodologico usato possa fornire approfondimenti sull’attività neuronale negli studi che indagano le differenze di gruppo in cui la segnalazione retinica può essere alterata attraverso lo sviluppo neurologico o condizioni neurodegenerative.
Un possibile strumento diagnostico
“L’aspetto molto interessante di questo studio è la possibilità di individuare un biomarcatore, un indice che si possa misurare in modo relativamente facile, per aiutare la diagnosi di alcune condizioni, che possono essere anche molto diverse. Nello studio si valuta lo spettro autistico e il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, ma esistono anche molte ricerche che analizzano condizioni neurodegenerative come l’Alzheimer”, osserva Paola Binda, Professore Associato di Fisiologia presso l’Università degli Studi di Pisa. “La retina è parte integrante del sistema nervoso centrale e condivide molte caratteristiche con il cervello, quindi ci si può aspettare che il funzionamento della retina possa fornire indicazioni sul funzionamento cerebrale. Inoltre questa struttura è molto più accessibile e molto più semplice del cervello”.
Nell’interpretare dei risultati ottenuti dai ricercatori, però, bisogna adottare alcune accortezze. “I meccanismi misurati nello studio sono molto semplici, riguardano i primissimi stadi della funzione visiva e sono comuni a quelli di altri primati e dei roditori”, continua Binda. E spiega: “ciò che noi percepiamo, ciò che entra nella nostra consapevolezza, è diverso da quello che i nostri occhi registrano. Questo perché il cervello, una volta ricevute le informazioni, parziali e frammentarie, che provengono dagli occhi, le integra e le modifica. L’analisi della retina permette di cogliere solo ciò che gli occhi registrano, riflette le caratteristiche fisiche dello stimolo e le caratteristiche fisiche e anatomiche della retina, ma non offre informazioni sull’interpretazione che avviene a livello cerebrale. Difficilmente quindi può essere uno strumento affidabile per analizzare un fenomeno così complesso come il disturbo dello spettro autistico”. I risultati ottenuti dai ricercatori restano interessanti, ma andrebbero replicati su migliaia di soggetti, come sottolineano gli autori stessi nell’articolo. “Possono esserci dei motivi quasi contingenti che producono una correlazione tra il comportamento della retina e la patologia, magari lo stesso neurotrasmettitore è sbilanciato nella retina e nel cervello, e questo può aiutarci a effettuare una diagnosi, il che è fondamentale”, continua Binda. “Ma finché non emergerà una chiara spiegazione del meccanismo alla base di tale correlazione, occorreranno ricerche su migliaia di persone per poter stabilire l’utilità dell’elettroretinogramma nella diagnosi”.
La pupilla: una finestra sul funzionamento cerebrale
Nel 2018 Paola Binda e i suoi colleghi si sono aggiudicati il finanziamento ERC Starting Grant per sviluppare nei successivi 5 anni lo studio sui rapporti tra cervello (in particolare le aree visive), personalità e metabolismo. Nel corso di questi anni gli scienziati hanno analizzato il comportamento della pupilla in soggetti sani e in persone affette da autismo. “Il diametro della pupilla è sottoposto a un finissimo controllo da parte di quasi tutto il cervello. Studiando le variazioni della pupilla riusciamo quindi ad ottenere informazioni non tanto di ciò che l’occhio vede, quanto di come il cervello interpreta gli stimoli visivi”.
Il fenomeno che i ricercatori dell’Università di Pisa analizzano è molto particolare. “Le ricerche condotte negli ultimi dieci anni, e in particolare e i risultati ottenuti negli ultimi 2-3 anni, hanno dimostrato che c’è un contesto, nel tempo e nello spazio, che il cervello crea, a partire dalla storia recente e che serve come filtro attraverso cui vediamo ciò che vediamo nel momento presente. In altre parole, gli studi hanno dimostrato che ciò che abbiamo visto 10 minuti fa è fondamentale per capire cosa vediamo ora”. Lo studio delle variazioni del diametro della pupilla permette di valutare questa capacità di contestualizzazione del cervello.
Binda e colleghi hanno dimostrato che esistono delle differenze, nelle variazioni del diametro della pupilla, tra i bambini sani, i bambini con diagnosi di autismo e i bambini con altri disturbi del neurosviluppo: il processo di contestualizzazione risulta molto più debole nella popolazione autistica.
L’assenza di questa capacità di contestualizzazione può avere dei vantaggi (il cervello potrebbe essere meno soggetto a illusioni ottiche, per esempio), ma può anche portare a un importante svantaggio in termini di funzionamento nel lungo termine. “Una minore capacità di contestualizzazione porta a una riduzione di precisione e coerenza”. E porta un esempio: “Se una persona che sale le scale non ha un’aspettativa, sulla base di ciò che vede, dell’altezza dei gradini, deve regolare il passo di volta in volta”. L’assenza di contestualizzazione potrebbe essere una chiave di interpretazione di uno dei sintomi dell’autismo: l’alterata sensibilità agli stimoli sensoriali (che in alcuni pazienti è eccessiva, in altri è ridotta) e la difficoltà a confrontarsi con gli ambienti nuovi. “ Se i pazienti non riescono a crearsi un’aspettativa sulla base di ciò che hanno visto poco prima, ogni singolo elemento in una nuova stanza diventa qualcosa che risveglia l’attenzione e per cui bisogna avere una spiegazione. Ciò porta a un sovraccarico del sistema con conseguente iper o ipo-sensibilità”.
I risultati ottenuti fin ora dal gruppo di ricerca supportano quindi ulteriormente l’utilità dello studio della pupilla nella ricerca sulle patologie del neuro-sviluppo.
Le ricerche in corso, conclude Binda, “ci aiutano ad apprezzare la complessità del sistema visivo, che emerge come un modello affidabile e relativamente accessibile per lo studio del cervello e delle sue peculiarità nella fisiologia e nella patologia”.
Front. Neurosci., 06 June 2022 Sec. Neurodevelopment
https://doi.org/10.3389/fnins.2022.890461