I microbi multiresistenti non sono più un fenomeno legato prevalentemente agli ospedali, ma sono ormai diffusi anche sul territorio. L’allarme arriva dal Congresso AMIT – Argomenti di Malattie Infettive e Tropicali, che si è svolto 16 e 17 marzo a Milano. Il problema dei microrganismi multiresistenti agli antibiotici rappresenta un fenomeno in crescita in tutta Europa, con l’Italia, avvertono gli esperti, tra i Paesi con le peggiori performance.
Il contesto
Si stima nel 2050 una mortalità per germi multiresistenti agli antibiotici analoga alle patologie oncologiche, con 10 milioni di morti a livello globale. In Italia per 100mila abitanti vi sono almeno 19 decessi l’anno attribuibili a infezioni da microrganismi multiresistenti, rispetto ai 2 dell’Olanda, ultima dell’elenco. A febbraio 2023, il ministero della Salute ha approvato il nuovo Piano Nazionale di Contrasto all’Antimicrobico Resistenza 2022-2025: oltre al rilievo del concetto di One Health, anch’esso pone attenzione alla fase di ‘transizione’ dei pazienti tra ospedale e territorio, che sta diventando foriera di nuove infezioni da microrganismi multiresistenti. Le colonizzazioni batteriche sul territorio sono dovute alla persistenza di microrganismi patogeni multiresistenti in vari organi e apparati.
Possibili soluzioni
Per far fronte all’emergenza dell’antibiotico-resistenza, spiega Marco Tinelli, Istituto Auxologico Italiano Irccs e presidente del Congresso, vi sono all’orizzonte alcune importanti soluzioni terapeutiche oltre al fondamentale trattamento con antibiotici. Tra i trattamenti già sperimentati con successo nel modello animale vi sono le microcine, che hanno un potere battericida. Vi è poi la terapia fagica: i batteriofagi sono virus in grado di attaccare e distruggere i batteri dopo aver inserito il genoma virale al loro interno.
Infine, una terapia ancora lontana dall’applicazione routinaria, ma che sarà disponibile, è il cosiddetto metodo Crispr Cas, che consiste nel modificare il genoma dei microrganismi intestinali rendendoli non aggressivi oppure eliminandone alcuni, attuando così una sorta di ‘decolonizzazione genomica’ senza sostituzione della gran parte della flora batterica come avviene con la classica decolonizzazione mediante antibiotici.