La maggior parte delle persone (immagino) inizia la propria giornata al suono di una sveglia, impostata ad una certa ora. Seguono una serie di impegni, scanditi dalle lancette dell’orologio: al lavoro alle 8:30, meeting (probabilmente virtuale) alle 10, pranzo alle 13, aperitivo (quando le restrizioni lo permettono) alle 19. E così via, fino al momento in cui, prima di andare a dormire, si imposta la sveglia per il mattino seguente. La luce del sole, e soprattutto gli orologi (da polso, del telefono, del computer, del tablet, della radio-sveglia, degli elettrodomestici), segnano il tempo la cui corsa, come ricorda Virgilio, è irreparabile.
Cosa succederebbe alle nostre giornate se gli orologi non esistessero e se il sole fosse oscurato? Come percepiremmo lo scorrere del tempo?
Per rispondere a queste domande che hanno del filosofico, ma che nascondono importanti implicazioni pratiche e scientifiche, l’esploratore e ricercatore Christian Clot ha organizzato e condotto l’esperimento Deep Time. Insieme ad altri 14 ricercatori (erano in tutto 8 uomini e 7 donne) ha trascorso 40 giorni nelle profondità di una grotta (la Grotta di Lombrives, nel sud della Francia), senza dispositivi che indicassero l’ora, senza la luce del sole, senza contatti con l’esterno. Una spedizione “oltre il tempo”, particolarmente significativa in un’epoca in cui le vite frenetiche di milioni di persone in tutto il mondo sono state sconvolte dalla pandemia da Covid-19.
Anche altri esploratori hanno vissuto esperienze del genere in passato, uno dei più conosciuti è Michel Siffre, un francese che, tra le altre spedizioni, nel 1972, trascorse 205 giorni in totale isolamento all’interno della Midnight Cave, nel Texas.
La solitudine però può svolgere un ruolo fondamentale nella percezione del tempo e nel deterioramento delle capacità cognitive. Riferendosi ad un’altra spedizione di Siffre, il giornalista Joshua Foer, nel suo libro L’arte di ricordare tutto, commenta: “La memoria di Siffre si deteriorò molto in fretta. In quella tetra oscurità, i giorni si fusero l’uno con l’altro diventando un unico, indistinguibile coagulo. Non essendoci nessuno con cui parlare e quasi nulla da fare, nella sua memoria non si impresse alcun nuovo dato e gli mancava qualunque riferimento cronologico con cui misurare lo scorrere del tempo. A un certo punto Siffre non riuscì più a ricordare nemmeno che cosa aveva fatto il giorno prima”. Anche il sonno risentì dell’isolamento: “A volte gli capitava di star sveglio per trentasei ore di fila, in altri casi per otto ore, senza avvertire alcuna differenza”.
Inutile dirlo, l’uomo è un animale sociale. Per questa ragione l’esperimento dei nostri giorni (iniziato a metà marzo e finito il 25 aprile del 2021), è molto diverso: per la prima volta coinvolge non un ricercatore isolato e solo, ma un gruppo di persone. È stato pensato come esperienza sociale e sociologica, che permettesse di valutare la reazione e i cambiamenti non solo del singolo, ma di un gruppo. Inoltre, l’interazione con gli altri, le attività da svolgere, l’esercizio fisico previsto dall’esperimento (una certa quantità di tempo da dedicare a pedalare su una cyclette), hanno permesso ai partecipanti di mantenere attivi la mente e il corpo. Difatti, come vedremo, i giorni nella grotta sono trascorsi in modo molto diverso rispetto a quelli di Siffre.
Assecondare i bisogni del proprio corpo
“La cosa che mi ha stupito maggiormente, mentre vivevo l’esperienza”, racconta Clot in un’intervista a Popular Science, “è stata proprio la sincronizzazione che si è creata, con il tempo, all’interno del gruppo”. Durante i 40 giorni gli scienziati avevano il compito di svolgere diverse attività, alcune individuali, che riguardavano il loro dominio di competenza e le loro ricerche, altre di gruppo (le attività erano pensate per durare tra le 7 e le 8 ore al giorno e lasciare il resto del tempo libero). All’inizio però, spiega Clot, “era difficile svolgere le attività collettive, perché ognuno aveva il proprio ritmo sonno/veglia ed eravamo tutti ‘desincronizzati’. Anche questo faceva parte dell’esperimento: non potevamo svegliarci l’un l’altro”. Con il tempo però, “la voglia di lavorare insieme ha fatto in modo che ci sincronizzassimo, c’erano quindi dei momenti in cui tutti eravamo svegli e in cui tutti eravamo addormentati”.
Ognuno ha assecondato le proprie esigenze e i propri ritmi, quindi naturalmente nessuna sveglia, e a dormire quando se ne sentiva il bisogno. Ogni partecipante ha contato i propri “cicli”, quante volte ha dormito. In questo modo è stato possibile valutare il tempo cognitivo, rispetto al tempo biologico. La cosa curiosa è che tutti i partecipanti, una volta trascorsi i 40 giorni, si trovavano all’incirca al trentesimo ciclo. Seguendo i propri bisogni naturali hanno quindi dilatato, allungato, le giornate.
“Provavo una sensazione di enorme libertà, sentivo di dormire davvero bene e di aver adottato un ritmo molto più adatto alla mia biologia”, continua. “Mi ci è voluta una ‘settimana’ per arrivare a questo risultato, riuscire ad assecondare semplicemente il mio corpo. Non è qualcosa a cui siamo abituati nella società attuale”.
Qui emerge una questione più sociale: “l’essere umano ha davvero bisogno di un’organizzazione di questo genere, con telefono, agenda, sveglia? Quando abbiamo iniziato a rispettare il nostro ritmo ci siamo sentiti meglio, e questo non ci ha impedito di lavorare bene e insieme. Ciò comporta naturalmente il superamento del paradigma: lo voglio quindi lo faccio, per arrivare a: ho bisogno di quindi lo farò quando sarà possibile”.
Cambiamenti nel corpo e nel cervello
Nel corso dell’esperienza i ricercatori monitoravano costantemente i loro parametri. Effettuavano regolarmente prelievi del sangue e prelievi biologici, misure del cortisolo (l’ormone dello stress) e della melatonina (l’ormone del sonno), misuravano il proprio peso e la propria temperatura, osservavano l’attività cerebrale durante il sonno con l’elettroencefalogramma, tenevano sotto controllo il battito cardiaco. Prima e dopo l’esperimento si sono sottoposti a risonanza magnetica cerebrale per valutare dei cambiamenti in termini di plasticità neuronale. Nella grotta hanno effettuato delle esperienze di realtà virtuale per monitorare la propria capacità di muoversi nello spazio, la postura, la percezione sensoriale. Rispondevano anche regolarmente a questionari che permettevano di valutare l’evoluzione personale.
Naturalmente è presto per trarre una qualunque conclusione, la grande quantità di dati raccolti deve ancora essere analizzata. Clot però ha condiviso con noi, in anteprima, alcune osservazioni.
“Abbiamo notato che in qualche modo abbiamo tutti modificato il nostro modo di muoverci, di spostarci e la nostra postura, i nostri corpi sono sicuramente cambiati, anche se dobbiamo ancora scoprire come, in che modo e perché. Anche il nostro modo di prendere decisioni è cambiato, prima era funzionale, poi è diventato man mano sempre più legato alle nostre emozioni, percezioni e sensazioni”. La risonanza magnetica ha rilevato dei cambiamenti nel cervello, in particolare al livello del lobo frontale. “Sono modificazioni che andranno analizzate, possono dipendere da molti fattori: dalle decisioni prese, dagli esercizi svolti, dagli stimoli continui che la grotta offriva”.
Questo è stato un altro elemento importante e distintivo dell’esperienza: la scelta di una grotta molto grande da esplorare per non annoiarsi. Non c’erano funghi giganti, animali mostruosi e umanoidi preistorici come nel Viaggio al centro della Terra di Jules Verne a cui Clot è affezionato, ma la grotta ha comunque stupito i ricercatori con paesaggi diversificati, bellissimi e colorati, c’era perfino un lago. “Ciò ha fatto sì che con il passare del tempo il nostro entusiasmo aumentasse sempre di più, al punto che alla fine dell’esperienza non volevamo andarcene”. Come dicevamo, un’esperienza molto diversa da quella di Siffre.
Attendiamo i risultati delle analisi dei dati raccolti, che ci riveleranno esattamente come il corpo e soprattutto il cervello dei partecipanti si è modificato in un luogo “senza tempo” e si è adattato a una condizione inedita. “Lo studio permetterà anche di comprendere meglio tutte le persone che lavorano nelle miniere, nei sottomarini, nello spazio, tutti luoghi dove la percezione del tempo è alterata”.
Clot ci rivela anche che appena possibile verrà lanciata un’altra esperienza Deep Time, identica a questa, per valutare la riproducibilità dei risultati con un’altro gruppo di ricercatori. Inoltre, l’esploratore aggiunge che, insieme alle stesse persone del Deep Time 1, si lancerà in un’esperienza simile in un ambiente completamente diverso (una foresta tropicale, un deserto, una zona polare) per valutare quanto il tipo di ambiente in cui si svolge l’esperimento influisca sulle modificazioni osservate.
Queste esperienze avventurose e per certi versi estreme, monitorate in modo così accurato, potrebbero addirittura portarci a rivalutare, o comunque guardare con una prospettiva diversa la nostra nozione di tempo. Non solo, i ricercatori, al termine delle loro analisi, potranno probabilmente scoprire qualcosa di più su argomenti affascinanti e ancora in parte misteriosi come la criobiologia e il sonno, ma anche fornire informazioni sull’evoluzione del cervello in condizioni naturali, in termini di plasticità, emozioni, presa di decisioni, percezioni e capacità mnemoniche.
Credit foto: ©Bruno MAZODIER