La terapia a base di plasma ipermmune, ricavato dal sangue dei pazienti guariti dal Covid-19, non sembra ‘fare la differenza’ nella terapia sui malati e ridurre il rischio di peggioramento o morte. A fare il punto sulla questione è la Fnomceo (Federazione degli ordini dei medici), nella sezione del suo sito ‘Dottore ma e’ vero che..’.
A maggio dello scorso anno “uno degli argomenti più dibattuti sul tema Covid-19 era la possibilità di utilizzare come trattamento il siero convalescente dei pazienti in fase di remissione. Si era ipotizzato che il plasma iperimmune potesse rappresentare una svolta nella gestione dell’emergenza”, si legge nel sito.
Il plasma iperimmune viene utilizzato per il trattamento delle malattie infettive da più di un secolo, quando la sua applicazione è stata studiata nel contesto dell’influenza spagnola, ma al momento l’unica patologia in cui il suo impiego è associato a un reale beneficio clinico e’ la febbre emorragica argentina.
Gli studi condotti sull’effetto su altre malattie, con caratteristiche in parte simili a quelle del Covid-19, come la Sars, l’influenza suina, aviaria ed Ebola, non ne hanno confermato i benefici. Per quanto riguarda l’infezione da SarsCoV2, l’impiego del plasma iperimmune è stato inizialmente valutato in studi non randomizzati, cioè senza un gruppo di controllo, in cui sembrava ridurre la mortalità se somministrato nei primi giorni nella diagnosi.
Dagli studi clinici randomizzati condotti negli ultimi mesi non sono emerse differenze significative in termini di mortalità . Anche uno studio promosso dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) e dall’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) – che ha messo a confronto una terapia basata sull’utilizzo del plasma iperimmune in aggiunta al trattamento standard e una basata solo sul trattamento standard – non ha messo in evidenza un beneficio associato al plasma: la probabilità di morire o avere un peggioramento nei primi trenta giorni è risultata simile tra i due gruppi di pazienti.