Mai arrendersi e far sempre sentire la propria voce. È questo lo sprone a tutte le donne che lavorano o vorrebbero lavorare nel mondo della scienza, e non solo, di Liliana Dell’Osso, direttore della Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa e autore di numerose pubblicazioni sia sul ruolo della donna sia sullo scenario di una sanità in continua evoluzione.
Leggendo la sua biografia, mi ha incuriosito il racconto di una bambina che ‘riusciva a fatica a strappare la parola ai fratelli maggiori’, ora la sua seconda casa è la Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa. Quanto è importante far sentire la propria voce?
Direi che è la cosa più importante: esprimere sé stessi è ciò che ci permette di trovare il nostro posto nel mondo e vivere in modo soddisfacente. Per farlo è necessario avere fiducia in sé stessi e, soprattutto, nei propri sogni, anche quando sembrano irraggiungibili. La prima condizione per riuscire a realizzare degli obiettivi, è di averli. Al contrario, ripiegare su posizioni di compromesso, pur di non uscire dalla propria comfort-zone, pur apparendo all’inizio come una soluzione meno stressante, alla lunga può causare frustrazione, malessere e anche facilitare l’insorgenza o l’aggravarsi di disturbi psichici.
Sempre rimanendo su questo tema, afferma di essere andata più volte controcorrente anche tra i colleghi, rivelandosi poi la scelta giusta per nuove scoperte. Si può dire che la scienza è continua ricerca e che chi crede di avere già tutte le risposte non ha il merito di farsi umilmente nuove domande?
Sicuramente. Purtroppo oggi la scienza si sta piegando ad altre logiche, per cui diventa più importante la corsa alla pubblicazione, necessaria per fare carriera in ambito accademico, del vero lavoro di innovazione scientifica. Molti non si muovono più sulla base del desiderio della scoperta, o anche semplicemente dell’approfondimento della conoscenza, ma sulla base di quale argomento possa più o meno essere appetibile per la rivista target. Io ho sempre cercato, invece, di mantenere un approccio orientato alla curiosità e alla creatività: alla fine ha pagato, ma non nascondo che è stato un rischio. Trovo che sia una macchina pericolosa, quella dell’editoria scientifica e del suo legame con la progressione accademica, che rischia di compromettere fortemente la ricerca e quindi l’innovazione, in tutti gli ambiti.
Un altro aspetto che mi ha colpito molto è la passione per la clinica, il paziente. L’attuale situazione sanitaria nel nostro Paese mette al centro il paziente?
No. Purtroppo abbiamo assistito negli ultimi decenni a una forte smobilitazione della sanità pubblica, a favore, in parte, della sanità privata, che comunque non è sufficiente a parare il colpo. Ci troviamo in un sistema in cui gli ospedali sono trattati come aziende, che conferiscono bonus ai reparti che permettono di risparmiare sulla spesa, e nel frattempo la qualità e la quantità di prestazioni si abbassano. Il fatto che i nostri ospedali fossero del tutto impreparati a gestire un’emergenza quale il Covid-19 non è che il risultato di questo scempio. Se non cambiamo le cose, la situazione non potrà che peggiorare.
Sono nata a Bergamo. Nella zona opera un medico che, di casa in casa, ha curato molte persone che lamentavano sintomi, senza aver bisogno neanche di un ricovero e senza decessi. Si può dire che la spia della paura e di coloro che l’hanno alimentata è una lama a doppio taglio?
La paura è un meccanismo importante, perché è ciò che ci spinge a difenderci dal pericolo. Quando arriva a sortire l’effetto opposto, ovvero a paralizzarci e a impedirci l’azione, compresa la difesa, o comunque a compromettere il nostro funzionamento più di ciò da cui doveva proteggerci, allora può divenire patologica. Il punto sta nel trovare il giusto equilibrio: né l’assenza né l’eccesso di paura sono utili al nostro benessere.
Nel suo ultimo libro ‘Contagi’ emerge un messaggio importante, la necessità di ripensare la scienza con vicinanza tra sanitari e pazienti, l’importanza dell’empatia. Tanti passi avanti sono stati fatti sull’alleanza terapeutica, ma per quanto riguarda la prevenzione qual è la direzione?
Trovo che la prima forma di prevenzione stia nell’educazione, nella divulgazione della conoscenza. Purtroppo oggi, nell’era del totale accesso all’informazione, le persone si trovano bombardate da messaggi di tutti i tipi, spesso senza avere gli strumenti per discernere quelli scientificamente fondati e quelli arbitrari. È necessario che la comunità scientifica, così come il sistema scolastico, reagisca con uno sforzo ulteriore per alfabetizzare il pubblico di non addetti ai lavori, per fornire strumenti formativi che permettano un ragionamento rigoroso. Solo così potremo “produrre” cittadini in grado di prendere scelte consapevoli. Nel mio piccolo, è ciò che sto tentando di fare pubblicando libri su temi scientifici scritti in un linguaggio divulgativo, accessibile a tutti, ma con messaggi corretti e corredati da solide fonti bibliografiche.
Ha scritto libri molto interessanti sulla figura di donne famose e un libro dal titolo particolare, “l’Abisso negli occhi”. Ci può fare un cenno sul messaggio di questo libro e su quanto può essere importante e attuale la figura femminile nella gestione di un Paese come l’Italia?
Lo scopo del “Abisso negli occhi” era quello di fornire uno spaccato della psicopatologia al femminile, a partire dalle sue cristallizzazioni mitologiche sino ai nostri giorni, e del suo legame con i fattori ambientali, prime fra tutti la discriminazione di genere e la stigmatizzazione di determinati tratti femminili. Purtroppo molti di questi pregiudizi sopravvivono ancora oggi e influenzano le possibilità delle donne non solo limitandone, di fatto, l’accesso alla carriera, o esponendole alla violenza di genere, ma in modo ancor più subdolo: plasmando il loro cervello sulla base di determinati stereotipi sin dalla nascita. Il problema non è, però, l’enfatizzazione della “differenza” di genere, ma la discriminazione. Maschi e femmine presentano indubbie differenze, in primo luogo a livello cerebrale, e sarebbe sbagliato schiacciarle. Vanno piuttosto valorizzate. Spesso vedo donne in posizioni di potere che si rifanno totalmente a modelli maschili, di tipo patriarcale, anziché riscoprire il valore degli stili di leadership matriarcali, ben più antichi e basati sulla mediazione e la cooperazione.
di Elena Bottazzi