Ritardo diagnostico, mancanza di percorsi costruiti davvero attorno al paziente, terapie innovative disponibili a macchia di leopardo, carenza di sostegno psicologico. Sono solo alcuni dei problemi che affliggono i malati rari adulti, una categoria spesso posta in secondo piano, nonostante l’Italia sia un Paese che invecchia.
Secondo la rete Orphanet Italia, sono circa 2 milioni i malati rari nel nostro Paese, con 19mila muove diagnosi ogni anno. Nella maggior parte dei casi si tratta di pazienti in età pediatrica, ma non mancano manifestazioni da adulti o durante la terza età. Sebbene l’80% delle circa 8.000 malattie rare siano infatti di origine genetica, ne esistono anche a insorgenza tardiva e oggi, grazie a terapie sempre più efficaci, sono molti i pazienti pediatrici che crescono e invecchiano.
Per far luce sui problemi che affliggono questa popolazione di pazienti si è tenuto l’evento digital “Malattie rare nell’adulto. Quali prospettive nei percorsi di diagnosi e cura”, un incontro organizzato da The European House-Ambrosetti in collaborazione con Osservatorio Malattie Rare e realizzato con il contributo di Pfizer.
“La tempestività nella presa in carico, dalla diagnosi precoce all’assistenza, inclusa quella domiciliare, la forte connessione delle reti multidisciplinari e multiprofessionali, l’uso sempre più diffuso della tecnologia e lo sviluppo di nuovi modelli di ricerca e di accesso alle terapie sono gli elementi chiave per ripensare il modello di gestione delle malattie rare in età adulta”, ha sintetizzato in apertura Daniela Bianco, partner e responsabile dell’area Healthcare di The European House-Ambrosetti.
Paola Binetti, presidente dell’Intergruppo parlamentare sulle malattie rare e membro della commissione Igiene e Sanità al Senato, ha rivolto un accorato appello affinché si vari e soprattutto si finanzi il nuovo Piano per le malattie rare. Il precedente è scaduto nel 2016 e la senatrice ha invitato a non disperdere i 37 miliardi che arriveranno dall’Europa per la sanità italiana: “I malati rari vogliono il loro piano perché ne hanno bisogno per vivere, non per sopravvivere”, ha ricordato.
Tra i problemi che tutti i relatori hanno sollevato, c’è quello del ritardo diagnostico nell’adulto: prima di ricevere la diagnosi corretta, possono passare diversi anni, poiché i sintomi possono essere quelli di altre malattie più frequenti. Da qui l’importanza della formazione dei medici di base, che per Domenica Taruscio, direttore del Centro Nazionale delle Malattie Rare dell’Istituto Superiore di Sanità, sono importantissimi. “Dobbiamo investire non solo sulla ricerca, che resta fondamentale, ma anche sulla formazione sistematica del territorio – ha argomentato – La Covid ci ha lasciato come eredità una maggior attenzione alla medicina territoriale: dobbiamo includere nel percorso anche i medici di medicina generale, migliorando la loro capacità di sospetto diagnostico”.
“La maggior parte delle malattie rare non ha segni e sintomi specifici – ha ricordato Maurizio Scarpa, Coordinatore della Rete di Riferimento Europeo MetabERN per le Malattie Metaboliche Ereditarie e direttore del Centro Malattie Rare alla Regione Friuli Venezia Giulia – Per questo molti adulti sono trattati per altre patologie”. Anche nei casi in cui la diagnosi è corretta, questa può arrivare dopo anni: “Si calcola che in media un paziente raro adulto veda otto specialisti prima di ricevere la diagnosi”, ha continuato Scarpa.
Per Annalisa Scopinaro, presidente Uniamo F.I.M.R., spesso il ritardo diagnostico è dovuto anche al poco tempo dedicato al paziente all’interno degli ambulatori: “Questo deve essere aumentato, così come l’utilizzo delle tecniche omiche – ha osservato – Inoltre, fondamentale è l’assistenza domiciliare e il supporto al caregiver che si trova ad affrontare situazioni complesse”.
Durante la giornata, è stato fatto un focus sull’amiloidosi cardiaca, una patologia caratterizzata dall’accumulo di una sostanza proteica insolubile, nota appunto come amiloide, nel muscolo cardiaco, che insorge intorno ai 60 anni. Poiché la deposizione dell’amiloide è un processo progressivo la diagnosi precoce per questa patologia è fondamentale. “Già da anni si aveva la consapevolezza che i pazienti identificati in una fase avanzata della amiloidosi avevano un decorso sfavorevole e rispondevano male alle terapie “tradizionali” antiscompenso e antiaritmiche – ha evidenziato Claudio Rapezzi, del Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università degli Studi di Ferrara – Da quando si sono conclusi i primi studi clinici prospettici randomizzati con i nuovi farmaci specifici (stabilizzatori della Transtiretina o silenziatori del gene della transtiretina), sappiamo con precisione che tanto più avanzata è la fase di storia naturale della malattia tanto minore è la risposta al trattamento”.