Sono passati circa due mesi dall’inizio della crisi Covid in Italia e, diciamocelo, in questo periodo ne abbiamo sentite di tutti i colori. Tanti studi, tante ipotesi, tante opinioni a volte tra loro contraddittorie. Nel tempo è stato detto tutto e poi il contrario di tutto, il che potrebbe generare sfiducia nei confronti dell’informazione e della scienza, ma anche far riflettere su un aspetto: scienza e informazione hanno tempi diversi. La scienza è lenta. Formula ipotesi, le verifica con rigore, sbaglia (per fortuna, perché sbagliando si impara), si riprende, sbaglia ancora, e poi, forse, arriva a conclusioni, che sono sempre parziali e mai verità assolute. Rappresentano un mattoncino di un edificio che può essere costruito solo mettendo insieme tanti studi, tante ricerche, in genere provenienti da tutto il mondo. L’informazione invece ha fretta, vuole dare certezze e vuole darle subito, senza parlare di sbagli, di margini di errore e intervalli di confidenza, di risultati parziali e rischia a volte di cadere nel tranello di non sottolineare l’importante differenza che intercorre tra ipotesi, opinioni e fatti. Siamo poi di fronte ad una situazione inedita (quante volte lo abbiamo detto ormai?), e questo spiega le incertezze e gli errori di valutazione, anche degli scienziati più rinomati al mondo, perché le domande sono molte, le certezze poche. Grazie a scambi di opinioni e ad un’enorme sforzo della ricerca internazionale, ad oggi abbiamo delle risposte su questo virus, che chiudono alcuni dei dibattiti a cui abbiamo assistito sui giornali e in televisione. Restano però moltissime cose che non sappiamo, bisogna ammetterlo, e che scopriremo solo con il tempo. Ne abbiamo parlato con Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms).
Uno degli argomenti più discussi in queste settimane è stato l’uso di test sierologici per determinare l’immunità dei singoli individui. Inizialmente si è parlato di “patente d’immunità”, poi sono stati espressi dei dubbi, sia per quanto riguarda l’accuratezza dei test sierologici sia per quanto riguarda la capacità di ogni individuo guarito a sviluppare anticorpi neutralizzanti, anche perché sono emersi casi di possibile re-infezione. Cosa sappiamo davvero sull’immunità e a cosa possono servire i test sierologici?
Parliamo di un virus nuovo, con cui stiamo interagendo da quattro mesi, quindi non si può dire se esista un’immunità di lunga durata. Le evidenze cliniche disponibili al momento però suggeriscono che probabilmente non si sia mai verificato un caso di effettiva re-infezione. I casi osservati sono state probabilmente recidive dovute al fatto che il virus fosse presente nell’organismo del paziente in forma latente e che si sia poi riattivato.
Per sapere se una persona abbia sviluppato degli anticorpi neutralizzanti (quindi delle IgG che impediscono al virus di entrare nuovamente nelle cellule n.d.r.), usiamo dei test sierologici sviluppati di recente che al momento non presentano una sensibilità e una specificità adeguate. Visto il numero di falsi positivi e di falsi negativi non credo siano utilizzabili per definire lo stato immunitario individuale. Anche il fatto che alcuni studi non abbiano rivelato, in una quota di soggetti guariti, la presenza di anticorpi neutralizzanti, potrebbe essere dovuto a falsi negativi o al fatto che il test non fosse abbastanza sensibile da rilevare degli anticorpi sotto-soglia.
La tecnica è comunque interessante per condurre studi su larga scala, a livello di popolazione, come verrà fatto per l’inchiesta nazionale sulla siero-prevalenza che partirà a breve.
Gli studi sulla siero-prevalenza permetteranno quindi di fare chiarezza su prevalenza e letalità effettive del virus?
Sono queste le risposte che cerchiamo. Fin ora, per valutare prevalenza e letalità, abbiamo usato come denominatore i risultati ottenuti con i tamponi, senza prendere in considerazione il resto della popolazione che non è stata sottoposta a test. Questo ha portato naturalmente a stime imprecise, che in alcuni casi sono state rivalutate, come nel caso della letalità in Cina e della differenza osservata nella mortalità tra uomini e donne (che sembra non sussistere). Lo studio sulla siero-prevalenza in Italia dovrebbe fornirci delle informazioni accurate riguardo all’epidemiologia dell’infezione, quindi sul tasso di prevalenza (quante persone sono state colpite dal virus rispetto alla popolazione generale n.d.r.) e sul tasso di letalità (quante persone sono morte tra quelle infette n.d.r.). Analizzeremo i dati per regione, per gruppo d’età e scopriremo quali sono le cifre effettive. Sarà anche possibile formulare delle ipotesi che spieghino, se si osserveranno ancora, le differenze in termini di diffusione e mortalità tra un Paese e l’altro.
Sono state suggerite diverse ipotesi riguardo alle possibili modalità di trasmissione del virus. Secondo uno studio, per esempio, l’Rna del virus si può “attaccare” alle polveri sottili. Da questa semplice osservazione è stato ipotizzato che nelle città più inquinate il virus possa diffondersi più facilmente. D’altra parte, con l’avvicinarsi dell’estate, si teme che i condizionatori possano diventare strumenti di propagazione di Sars-Cov-2. Cosa sappiamo per certo?
Ho qualche dubbio che il particolato trasporti il virus. Anche se in laboratorio è stata rivelata la presenza di Rna virale associato al particolato, ciò non indica che quest’ultimo sia veicolo del virus e che ne trasporti una quantità sufficiente ad infettare una persona e far insorgere la malattia. Il problema delle polveri sottili non consiste nel fatto che possano favorire la diffusione del virus, quanto nel fatto che i nostri polmoni comunque risentono all’esposizione all’inquinamento.
Per quanto riguarda gli aerosol, è vero che la vaporizzazione può favorire la diffusione di una carica virale, ma in condizioni molto particolari di laboratorio o di clinica. Se si usano macchinari che vaporizzano il microambiente intorno a una persona malata e questa in quel momento emette droplet (le goccioline che emettiamo quando parliamo, starnutiamo o tossiamo) contenenti particelle virali, il virus potrebbe diffondersi a distanze più elevate del normale, fino a 5 o 6 metri. Si tratta però di situazioni sporadiche, mentre la diffusione attraverso i climatizzatori, che verranno ampiamente utilizzati quest’estate, resta estremamente improbabile, per quanto teoricamente possibile.
Lo stesso discorso vale per la trasmissione del virus a partire da superfici infette. È vero che i droplet possono atterrare sugli oggetti e che se, dopo averli toccati, si porta la mano agli occhi, alla bocca o al naso, ci si potrebbe infettare. Occorrono però condizioni particolari, una carica virale sufficiente ad infettare. Per quanto teoricamente possibile, non è una modalità di trasmissione che fin ora è stata osservata.
Alcune ricerche hanno anche suggerito che la nicotina possa proteggere dal virus, mentre altri che un’attività sportiva intensa possa contribuire ad aggravare la malattia. Come vanno interpretati questi studi?
Lo studio francese che ipotizza un ruolo protettivo per la nicotina non è particolarmente affidabile o rigoroso. Ci sono osservazioni empiriche che potrebbero permettere di formulare l’ipotesi che chi fuma e consuma pasticche di nicotina guarisca prima o si ammali di meno, ma al momento queste ipotesi non sono state dimostrate da nessuno studio serio e controllato. Ciò che sappiamo per certo è che il fumo danneggia in modo importante i polmoni e che chi presenta difficoltà al livello respiratorio resiste di meno al virus.
Ancora per quanto riguarda l’attività sportiva, lo studio presenta un modello teoricamente possibile, ma che richiede una coincidenza di fattori tali che diventa altamente improbabile: una persona deve essere stata infettata da poco, presentare una quantità di virus importante nei polmoni, sottoporsi ad uno sforzo fisico molto molto intenso, che dia una forte accelerazione alla frequenza respiratoria e alla circolazione sanguigna perché lo sport possa aggravare le sue condizioni.
Parliamo del ruolo delle mascherine: prima si diceva che erano inutili per le persone sane, poi in alcune regioni sono diventate obbligatorie e, secondo alcuni, andrebbero indossate sempre, anche a casa. Quale dovrebbe essere il loro uso?
Teniamo presente che per venire contagiati bisogna trovarsi a meno di un metro (o di un metro e ottanta se la persona ha il raffreddore) da un soggetto infetto ed essere esposti alle particelle virali per un certo periodo di tempo. Per capirci, passando semplicemente accanto a una persona che starnutisce, la probabilità di infettarsi è estremamente bassa. Quindi negli spazi aperti, a patto di evitare raduni, le misure igieniche e di distanziamento bastano e la mascherina non serve.
In un ambiente chiuso, come un negozio o una palestra, in cui non è possibile mantenere le distanze invece, consiglierei una mascherina protettiva. Sia per proteggere gli altri che sé stessi perché sebbene, in particolare per chi la indossa, non sia completamente protettiva, la mascherina abbatte comunque la carica virale.
Però attenzione: le mascherine possono dare una sensazione di falsa sicurezza, le cose più importanti da fare restano comunque lavarsi le mani con frequenza e mantenere la distanza. Bisogna poi adottare alcune accortezze: la mascherina non deve essere toccata, perché la superficie esterna potrebbe essere infetta (va quindi tolta dagli elastici) e deve essere cambiata spesso, sopratutto in estate con il caldo e il sudore.
Passiamo ora dalla convivenza con il virus alla lotta a Sars-Cov-2. Per molti il vaccino è la soluzione ottimale. Ciononostante, è stato suggerito da alcuni che lo sviluppo di un vaccino fosse inutile, perché il virus si sta depotenziando e per quando il vaccino sarà pronto, l’anno prossimo, non ce ne sarà più bisogno, un po’ come è avvenuto con la Sars. Che ne pensa?
Questo è un virus particolare rispetto a Sars-Cov, che si è “esaurito” da solo e a Mers-Cov, che infetta ancora ma sporadicamente. Sars-Cov-2 è molto più simile al virus dell’influenza e ha contagiato milioni di persone e provocato centinaia di migliaia di morti. C’è quindi una giustificazione etica, numerica e di sanità pubblica che impone lo sviluppo di un vaccino, oltre che lo sviluppo di farmaci. Il vaccino per questo tipo di virus, dal mio punto di vista, è la soluzione ottimale, probabilmente la soluzione finale. Si tratta di un virus abbastanza stabile tra l’altro, quindi la ricerca di un vaccino è relativamente semplice. Sulla piattaforma dell’Oms ci sono circa 80 candidati e 5 o 6 vaccini sembrano promettenti.
Anche a proposito della stabilità del virus sono emersi pareri discordanti. I sequenziamenti condotti fin ora facevano pensare che il virus mutasse poco, alcuni studi recenti hanno invece suggerito differenze sostanziali tra ceppi e una maggiore virulenza di Sars-Cov-2 in Europa. È possibile fare un po’ di chiarezza?
È possibile che il virus muti, ma il sequenziamento dei ceppi identificati non fa pensare che ci sia una grande variabilità o che ci siano differenze che giustifichino una maggiore o minore virulenza. Altri fattori, che ormai conosciamo bene, come l’età e la presenza di comorbidità sono degli elementi che possono spiegare più semplicemente le differenze osservate tra i Paesi. Le altre sono ipotesi di laboratorio che, per quanto importanti, vanno considerate come tali.
Se impostassimo provvedimenti di sanità pubblica su ipotesi di laboratorio dimenticando ciò che è prevalente, evidente e supportato da una ricerca robusta, non renderemmo un servizio alla popolazione.
A proposito della necessità di basarsi su osservazioni empiriche e ricerche robuste, al di là delle opinioni, sappiamo cosa accadrà al virus nei mesi estivi?
Di certo speriamo che si arresterà con il caldo, ma non credo che accadrà. Al momento il virus circola, in modo lento, ma robusto e costante. E fin ora non sembra ci sia stato un rallentamento dovuto al caldo. I ricercatori che ritengono che il virus si indebolirà con l’estate portano l’esempio della situazione epidemiologica in Africa o del confronto tra Australia e Canada. I due Paesi presentano una popolazione simile eppure in Canada, dove fa più freddo, la casistica è superiore. Esempi interessanti, ma che non dimostrano che il virus sparisca con l’estate.
La scienza in questa crisi è una guida, che aiuta la politica a prendere delle decisioni, ma dai dibattiti tra specialisti, in tv o sui giornali, sembrano emergere parecchio disaccordo e confusione.
Tutti possono andare in tv a raccontare la loro storia, ma ciò che conta alla fine sono le conclusioni a cui giungono i comitati scientifici, che poi alimentano la decisione politica. Un comitato tecnico scientifico, composto di persone con ambiti di competenza diversificati e opinioni differenti, è stato incaricato di rispondere quesiti e domande difficili. Per adempiere a questo compito e fornire risposte univoche, gli specialisti interagiscono con le società scientifiche, con i colleghi di accademie e università e con la ricerca di tutto il mondo e fanno una sintesi di quello che la ricerca mette attualmente a disposizione. Non è il verbo individuale di un esperto ma la sintesi di migliaia di studi. Ciò che si cerca è un’approssimazione di verità che si basi sul dato scientifico.
In Italia il governo si è affidato all’evidenza scientifica e le decisioni politiche prese si sono rivelate appropriate, altrove la politica non supportata dalla scienza ha messo in pericolo i Paesi. Ognuno porta la sua opinione, e questo può essere un dialogo che arricchisce, ma alla fine c’è un accumulo di evidenze che vanno studiate, interpretate e messe a disposizione di coloro che prendono decisioni, perché siamo in presenza di un’epidemia grave.