(Reuters Health) – Gli ultrasuoni focalizzati a bassa intensità (LIFU) guidati tramite RMN possono aprire con sicurezza la barriera ematoencefalica (BBB) e consentire l’erogazione mirata dei farmaci in pazienti con Malattia di Alzheimer.
È questo, in sintesi, il risultato di uno studio di fase 2 presentato in occasione del meeting annuale della Radiological Society of North America.
I ricercatori della West Virginia University di Morgantown e del West Virginia Clinical and Translational Science Institute – guidati da Rashi Mehta – hanno illustrato le prime evidenze di un trial di fase 2 che sta valutando la sicurezza e l’efficacia dell’apertura della barriera ematoencefalica nell’ippocampo e nella corteccia entorinale in siti caratterizzati da un carico anomalo di amiloide in pazienti con Malattia di Alzheimer precoce.
Tre donne con Alzheimer precoce e evidenze di placche di amiloide hanno ricevuto tre trattamenti consecutivi a intervalli di due settimane.
La RMN cerebrale ha confermato l’apertura della barriera emato-encefalica all’interno delle aree target immediatamente dopo il trattamento, con la chiusura della barriera all’interno di ciascun sito target evidente entro 24 ore.
“I risultati sono promettenti”, osserva Rashi Mehta,”Siamo riusciti ad aprire la barriera ematoencefalica in modo molto preciso e a documentare la chiusura della stessa entro 24 ore. La tecnica è stata riprodotta con successo nei pazienti senza alcun effetto avverso”.
Un casco dotato di oltre 1.000 trasduttori di ultrasuoni indipendenti, guidati dalla RMN, viene posto sulla testa del paziente. Ogni trasduttore invia onde sonore mirate alle aree target. I pazienti ricevono anche un’iniezione di un mezzo di contrasto costituito da bolle microscopiche. Una volta applicati gli ultrasuoni all’area target, le bolle oscillano.
“Il trasduttore nel casco invia energia focale ai siti specificati nel cervello. L’oscillazione delle microbolle causa effetti meccanici sui capillari nell’area target, determinando un allentamento transitorio della barriera emato-encefalica”, spiega Mehta.
“Vorremmo trattare più pazienti e studiare gli effetti a lungo termine per vedere se vi sono miglioramenti nella memoria e nei sintomi associati alla malattia di Alzheimer.
Il prossimo passo potrebbe essere quello di erogare i farmaci attraverso questa tecnica, dal momento che ha dato conferma di sicurezza”, conclude la ricercatrice.
Fonte: Radiological Society of North America 2019
Reuters Staff
(Versione Italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)