La combinazione di trattamenti non basati sulla chemioterapia potrebbe giocare, in futuro, un ruolo importante nella cura dei pazienti con tumore del seno. Con quasi quattro anni di sopravvivenza complessiva, per esempio, la combinazione dell’inibitore selettivo della chinasi ciclina-dipendente (CDK) 4&6 abemaciclib con fulvestrant si è mostrata più efficace della terapia ormonale somministrata con placebo, che ha allungato la sopravvivenza di poco più di tre anni.
È il risultato dello studio MONARCH 2, presentato all’ESMO da George Sledge, dell’Indiana University School of Medicine (USA) e pubblicato in contemporanea su JAMA Oncology.
Il trial clinico di fase III ha coinvolto donne in pre, peri e post-menopausa con carcinoma mammario avanzato o metastatico, positivo per il recettore ormonale (HR+), negativo per il recettore di tipo 2 del fattore di crescita epidermico umano (HER2-) e precedentemente trattate con terapia endocrina.
Dai risultati è emerso che la sopravvivenza complessiva è passata da 37,3 mesi a 46,7. Inoltre, i risultati sono stati positivi anche tra le donne con fattori prognostici negativi, il cui tumore era rapidamente progredito o si era diffuso ad altri organi, come fegato o polmoni.
Un’analisi esplorativa dei dati ha inoltre mostrato che abenaciclib in combinazione con fulvestrant ha ritardato il tempo necessario prima del ricorso alla chemioterapia da 50,2 mesi a 22,1 della terapia ormonale somministrata insieme al placebo.
“Abemaciclib è in grado di prolungare il controllo della malattia nelle pazienti con tumore del seno sensibile agli ormoni, il tipo più frequente di carcinoma mammario, che rappresenta circa il 70% del totale dei casi in stadio avanzato”, ha spiegato Pierfranco Conte, professore di Oncologia Medica dell’Università di Padova, sottolineando che “la terapia è anche ben tollerata”.
Sempre sul fronte degli inibitori CDK4/6, all’ESMO2019 sono stati presentati, da Dennis Slamon dell’Università della California di Los Angeles, i risultati dello studio clinico di fase III MONALEESA-3, che valutava l’efficacia e la sicurezza di ribociclib in combinazione con fulvestrant in donne in post-menopausa con tumore mammario avanzato o metastatico HR+ e HER2-.
Dalla sperimentazione è emerso che la combo ha raggiunto l’endpoint secondario di sopravvivenza globale, dimostrando un miglioramento statisticamente significativo di sopravvivenza con una riduzione del 28% del rischio di morte (sopravvivenza complessiva mediana non raggiunta vs 40,0 mesi).
“In Italia vivono più di 37mila donne con diagnosi di tumore della mammella metastatico – ha affermato Michelino De Laurentis, direttore del Dipartimento di Oncologia Senologica e Toraco-Polmonare dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione ‘G. Pascale’ di Napoli -. La classe degli inibitori CDK4/6 permette di evitare il ricorso alla chemioterapia in prima linea o posticiparla, con grandi vantaggi per le pazienti in termini di qualità di vita e minore tossicità”.
L’immunoterapia
Anche nel tumore del seno, poi, si tenta la strada dell’immunoterapia. A presentare dei dati di uno studio di fase II, KATE2, è stata ieri Leisha Emens, dell’Università di Pittsburgh. La sperimentazione ha testato atezolizumab in associazione con trastuzumab emtansina (T-DM1), nelle pazienti HER2+ che avevano una progressione della malattia dopo trattamento con trastuzumab e un taxano. Alle pazienti sono stati anche valutati i livelli di espressione di PD-L1.
Da un’analisi intention-to-treat, i tassi di sopravvivenza complessiva a un anno sono stati sovrapponibili, ma nel gruppo di pazienti con espressione di PD-L1, questo parametro ha raggiunto il 94,3% con atezolizumab più T-DM1 e di 87,9% con T-DM1 più placebo. Inoltre, si è registrata una riduzione del 45% del rischio di morte rispetto a T-DM1 più placebo, nei pazienti che esprimono PD-L1 e che hanno un tumore HER2+ che è progredito.
“Questo studio ci fa capire che nel contesto del tumore del seno metastatico, e forse, in futuro, nelle fase precoci della malattia, l’immunoterapia potrà diventare sempre più utile, magari in combinazione con terapie target su HER2”, ha dichiarato Luca Gianni dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, che ha sottolineato, però, che “non è possibile trarre conclusioni certe sulla base di un così ristretto numero di pazienti”.