Chirurgia: anche quella non cardiaca può mettere a rischio il cuore

(Reuters Health) – Anche la chirurgia non cardiaca metterebbe a rischio il cuore, con un aumento della mortalità tra persone ad alto rischio di sviluppare malattie cardiovascolari. È la conclusione cui è giunto un team di ricercatori guidato da Christian Puelacher, del Cardiovascular Research Institute Basel, in Svizzera, che consiglia di eseguire uno screening post-operatorio. La ricerca è stata pubblicata da Circulation.

La premessa
Il danno perioperatorio al miocardio (PMI – perioperative myocardial injury) contribuisce all’aumento di mortalità dopo chirurgia non cardiaca, ma, poiché spesso è asintomatico, non viene sempre diagnosticato, a meno che i pazienti non vengano sottoposti a screening. Per lo studio, i ricercatori svizzeri hanno analizzato in modo prospettico pazienti per valutare se avevano subito un PMI, misurando la troponina cardiaca.

Lo studio
Puelacher e colleghi hanno arruolato 2.018 pazienti ad alto rischio cardiovascolare che si sono sottoposti a intervento chirurgico, tra cui procedure ortopediche, urologiche, vascolari o toraciche, e che dovevano per questo restare in ospedale almeno 24 ore. I ricercatori hanno quindi misurato le concentrazioni plasmatiche di troponina T entro 30 giorni prima dell’intervento e nei due giorni successivi all’operazione. Il PMI era definito come un aumento assoluto di almeno 14 ng/litro entro sette giorni dall’intervento. Se si verificava, i pazienti venivano controllati per eventuali sintomi e sottoposti a elettrocardiogramma. Inoltre, veniva richiesta una consulenza cardiologica.

I risultati

Il danno perioperatorio al miocardio si è verificato nel 16% dei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico, ma era accompagnato dal tipico dolore a livello toracico solo nel 6% dei casi e a un qualsiasi sintomo ischemico nel 18%. Complessivamente, il 2,8% dei pazienti è deceduto entro 30 giorni dall’intervento. Tuttavia le cause cardiovascolari sarebbero state responsabili di meno della metà dei decessi, il 41%. A un anno dall’operazione, invece, l’11,2% dei pazienti è morto, di cui il 32% per cause cardiovascolari. La mortalità a 30 giorni è stata dell’8,9% nei pazienti con PMI e dell’1,5% fra quelli senza PMI. E ulteriori analisi hanno evidenziato un rapporto di rischio di 2,7 per la mortalità a 30 giorni tra i pazienti con PMI, indipendentemente dal fatto che soddisfacevano o meno altri criteri per l’infarto miocardico acuto spontaneo.

I commenti
“I nostri dati aggiungono informazioni importanti sul danno perioperatorio cardiaco, dal momento che siamo stati i primi a usare un sistema di screening ripetibile dopo chirurgia non cardiaca, in pazienti ad alto rischio”, ha dichiarato Puelacher che ha sottolineato che lo screening è approvato da una delle principali linee guida, il Third Universal Definition Myocardial Infarction, mentre non ci sarebbero riferimenti in altri documenti. Per questo “le valutazioni post-operatorie devono essere personalizzate e le strategie scelte in modo appropriato”, ha concluso l’esperto. Secondo il portavoce dell’American Heart Association, Timothy Gardner, “sulla base di questo studio, i chirurghi e gli altri medici che si prendono cura dei pazienti che si sottopongono a interventi dovrebbero considerare di testare la troponina per identificare i pazienti a rischio maggiore di complicanze post-operatorie”.

Fonte: Circulation
Marilynn Larkin
(Versione italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)

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