Riuscire a capire quali sono i terremoti potenzialmente in grado di scatenare uno tsunami. E’ questo l’obiettivo di uno studio internazionale pubblicato su Nature Geoscience che vede coinvolta l’Italia con Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) e le Università di Padova e Firenze, e le università britanniche Royal Holloway di Londra, di Manchester e di Durham, e le giapponesi di Tsukuba e Kyoto.
Le premesse
Finora era noto che, oltre che dai vulcani, gli tsunami possono essere scatenati dai terremoti secondo meccanismi diversi, ad esempio con la rottura di un piano di faglia o con una grande frana sottomarina. In caso di terremoti particolarmente violenti la rottura che avviene lungo la crosta terrestre (faglia) si propaga consentendo ai blocchi di roccia che si trovano ai lati di spostarsi l’uno rispetto all’altro anche di decine di metri. Nei terremoti che avvengono in mare la velocità di propagazione della rottura avviene al ritmo compreso fra 2 e 4 chilometri al secondo, più veloce rispetto a quello dei terremoti continentali (fra 1 e 2 chilometri al secondo).
Lo studio
“Fino a pochi anni fa si riteneva che le rotture sismiche non fossero in grado di propagarsi attraverso i più superficiali e soffici sedimenti marini ricchi in argilla”, ha osservato Paola Vannucchi, primo autore dell’articolo, che lavora fra le università di Firenze e Royal Holloway di Londra. Che le cose non stiano così lo ha dimostrato l’esperimento condotto presso l’Ingv con il più potente simulatore di terremoti del mondo, chiamato Shiva (Slow to HIgh Velocity Apparatus).
I test hanno dimostrato che i forti terremoti, di magnitudo superiore a 7, possono causare la rottura della roccia dalla profondità massima di 35 chilometri fino al fondale marino. A suggerire la necessità di verificare con un esperimento le teorie finora accreditate è stato il terremoto di magnitudo 9,0 avvenuto l’11 marzo 2011 in Giappone: per la prima volta allora si è notata la propagazione della rottura della faglia fino a rompere il fondale oceanico.
La rottura del fondale oceanico è associata all’innalzamento, anche di alcuni metri per grandi terremoti, del fondale e la conseguente energizzazione della colonna d’acqua marina sovrastante. Poiché in zona di fossa oceanica la colonna d’acqua è di diversi chilometri di altezza, il sollevamento del fondale in questi particolari ambienti oceanici comporta la generazione di imponenti e violentissime onde di tsunami, alte fino a 20-30 metri (un palazzo di dieci piani) quando queste si infrangono sulla costa, come nel caso del terremoto di Tohoku.
Gli esperimenti sono stati effettuati con l’apparato sperimentale SHIVA (Slow to HIgh Velocity Apparatus) che con i 300 kW (equivalente alla potenza dissipata da 100 appartamenti medi Italiani) è in grado di dissipare, in provini di roccia dalle dimensioni di un piccolo bicchiere del diametro di 50mm, il più potente simulatore di terremoti al mondo. SHIVA, progettato e installato nel 2009 presso il Laboratorio Alte Pressioni – Alte Temperature di Geofisica e Vulcanologia Sperimentali dell’INGV di Roma, è una strumentazione in grado di comprendere la meccanica dei terremoti.
“Questa ricerca”, conclude Elena Spagnuolo, ricercatrice dell’INGV, “tenta di svelare i possibili processi fisici che consentono a un terremoto di generare uno tsunami per sollevamento del fondale marino. In considerazione del fatto che questi sedimenti calcarei sono abbastanza comuni nelle fosse oceaniche e che, in base all’evidenza sperimentale, la loro presenza agevola la propagazione di una rottura sismica fino a rompere il fondale marino, si ritiene che questo fenomeno possa essere molto frequente”.