(Reuters Health) – Un team di ricercatori canadesi afferma che la struttura e la funzionalità del cervello dopo un trauma sportivo rimangono alterate anche dopo il via libera (clearance) del medico per tornare a giocare. Così è secondo quanto riportato dall’articolo pubblicato su Scientific Reports.
La decisione medica favorevole alla ripresa dell’attività agonistica (Rtp) si basa principalmente sui sintomi auto-segnalati e viene rilasciata una volta che l’atleta si mostri asintomatico dopo l’esecuzione di una serie di esercizi progressivi. Tuttavia, a quanto pare, spesso l’atleta rimane a rischio di lesioni future, depressione e disfunzione cognitiva. “Siamo rimasti sorpresi nel constatare che i cambiamenti cerebrali osservati precocemente dopo il trauma sono ancora presenti nella maggioranza degli atleti al momento del “rientro in campo” e non mostrano segni di regressione – afferma uno degli autori dello studio, Nathan W. Churchill, del Saint Michael’s Hospital di Toronto, Canada – Noi ci aspettavamo invece che le funzioni e la struttura del cervello fossero simili a quelle di atleti senza un pregresso trauma cranico”.
Churchill e colleghi hanno utilizzato il diffusion tensor imaging (Dti), che rileva i cambiamenti nella microstruttura del tessuto cerebrale, e la MRI funzionale, altamente sensibile all’alterazione della funzione del cervello e alla sua connettività dopo un lieve trauma. Lo scopo era quello di indagare i cambiamenti dal momento dell’infortunio al momento della Rtp in 27 atleti (età media, 20, 52% femminile) con diagnosi di trauma cranico in ambito sportivo. I risultati sono stati confrontati con quelli provenienti da 27 atleti che non avevano subito traumi al capo nei precedenti 6 mesi.
Il Dti ha mostrato alterazioni diffuse nella materia bianca cerebrale degli atleti infortunati. Queste alterazioni erano visibili sia subito dopo la concussione cerebrale sia al momento della Rtp. La connettività funzionale globale, che quantifica la funzione integrale totale del cervello, è risultata anche significativamente più elevata negli atleti con commozione cerebrale acuta rispetto al gruppo di controllo. Ed ha continuato ad aumentare fino al Rtp, indicando così una funzione permanentemente alterata del cervello.
Le misure Dti non hanno mostrato associazioni significative con il numero di giorni prima della Rtp. Tuttavia, gli atleti con tempi di recupero più brevi hanno mostrato, al momento della ripresa, diminuzione della connettività funzionale globale rispetto al momento della lesione acuta, mentre gli atleti con tempi di recupero più lunghi mostrano un aumento della connettività funzionale globale.
“L’aumento della connettività funzionale osservato sia nelle lesioni acute sia in sede Rtp è stato precedentemente osservato in varie forme di insulti neurologici, tra cui ictus e lesioni cerebrali più gravi. Questo suggerisce che si tratti di una risposta funzionale del cervello in risposta alla lesione neurale. La connettività funzionale elevata può essere una conseguenza della disfunzione neurometabolica che si verifica dopo una concussione, spiegano i ricercatori.
L’ipotesi alternativa suggerisce che “un’elevata integrazione funzionale rifletta una maggiore ridondanza nella funzione del cervello e possa servire da meccanismo protettivo a seguito di lesioni traumatiche. I risultati attuali possono quindi riflettere una risposta di adattamento al danno, negli atleti sani. A questo punto non abbiamo abbastanza informazioni per formulare raccomandazioni riguardo le linee guida per il ritorno all’attività sportiva – afferma Churchill – I nostri risultati suggeriscono che ci sono processi biologici in corso al momento della Rtp, ma non sappiamo ancora se questo significa che il cervello stia ancora recuperando per tornare alla fine ‘normale’ dopo il tempo necessario o se i cambiamenti rappresentino l’esito definitivo del trauma cranio-encefalico in questi atleti. Questo studio ha anche scoperto che gli atleti che hanno impiegato più tempo per raggiungere la Rtp hanno mostrato differenze precoci nelle aree cerebrali coinvolte nella funzione motoria”. Pensiamo che tale ricerca di neuroimaging possa anche aiutare a capire perché alcuni atleti abbiano tempi di recupero più lunghi rispetto ad altri, fatto che rappresenta una domanda senza risposta nel campo delle commozioni cerebrali in contesto sportivo”.
“Inoltre – scrivono i ricercatori – c’è una crescente documentazione in letteratura che mostra differenze significative legate al sesso nell’incidenza della concussione e nei risultati clinici”. Secondo Patrick Neary dell’Università di Regina, Saskatchewan, Canada, esperto in materia, “è interessante notare che alcuni cambiamenti strutturali / funzionali continuano ad esistere dopo il ritorno all’attività agonistica. Questo suggerisce che abbiamo ancora bisogno di trovare biomarcatori sensibili per un ritorno sicuro allo sport. Basandosi su questa e altre ricerche, un certo numero di biomarcatori fisiologici diversi devono essere valutati contemporaneamente”. Tra questi, ad esempio, pressione sanguigna, frequenza cardiaca, variabilità delle frequenza cardiaca, Eeg, ossigenazione del tessuto cerebrale e flusso sanguigno cerebrale. “Dobbiamo controllare anche come questi biomarcatori rispondano ad azioni specifiche (trattenere il respiro, esercizio fisico lieve, cambiamenti posturali)”, concludono.
Sci Rep 2017
di Will Boggs MD
(Versione italiana Quotidiano Sanità / Popular Science )