Lo scorso mese di aprile, l’Agenzia europea dei medicinali (EMA) ha aperto una consultazione pubblica sul tema dei trial a braccio singolo, proponendo un documento di riflessione che discute i concetti chiave per l’utilizzo di questo genere di studi clinici come prova fondamentale a sostegno delle domande di autorizzazione all’immissione in commercio per i medicinali nell’Unione Europea (UE). Si tratta di un documento orientativo che articola le considerazioni e le sfide associate a questo tipo di trial.
Gli studi controllati randomizzati (RCT) sono oggi considerati lo standard per fornire tutte le prove scientifiche in grado di confermare la sicurezza e l’efficacia di un nuovo farmaco. Negli studi randomizzati, i pazienti vengono assegnati in modo casuale al braccio di trattamento attivo o al braccio di controllo. Di solito, in questi studi vengono inclusi un gran numero di pazienti per generare dati affidabili sull’efficacia di un trattamento. Tuttavia, negli ultimi anni è aumentata esponenzialmente la percentuale di domande di autorizzazione all’immissione in commercio i cui dati clinici di sicurezza poggiano su studi a braccio singolo (SAT), evidenzia l’EMA.
Nei SAT, tutti i soggetti che entrano nello studio sono destinati a ricevere il trattamento sperimentale e a essere seguiti prospetticamente per un periodo di tempo. I SAT possono avere caratteristiche specifiche di progettazione, come ad esempio un periodo di monitoraggio per ottenere i dati di base dei soggetti prima dell’inizio del trattamento. In generale, le considerazioni contenute nel documento di riflessione dell’EMA si estendono anche agli studi che contengono più di un braccio, ma non randomizzano a un controllo per un confronto formale. Ciò include gli studi non randomizzati, così come gli studi in cui solo i bracci sperimentali sono randomizzati, ma senza confronti formali tra i bracci.
L’impiego di SAT si osserva in diverse aree terapeutiche, soprattutto l’oncologia, ma anche le malattie rare. L’obiettivo del documento di riflessione è quello di delineare l’attuale pensiero sui SAT presentati come prove di riferimento per stabilire l’efficacia di un medicinale per il quale è stata inoltrata una domanda di autorizzazione all’immissione in commercio. Tuttavia, non rientra nell’ambito del documento di riflessione la definizione delle condizioni generali in cui i SAT possono essere considerati accettabili ai fini registrativi. Tali considerazioni dipendono infatti fortemente dal contesto clinico e da altri fattori, come la modalità di trattamento del farmaco. È responsabilità del richiedente – segnala l’EMA – giustificare adeguatamente alle autorità di regolamentazione il motivo per cui un SAT, che si discosta dall’approccio standard in cui si forniscono prove pivotali di efficacia tramite RCT, può fornire chiare evidenze di efficacia.
Dalla scelta degli endpoint alla selezione della popolazione target, dal ruolo dei dati esterni ai principi statistici che devono essere alla base dell’organizzazione di single arm trial, il documento entra nel merito di tutti i temi più rilevanti in materia.
Lo scopo della consultazione è stato dunque stimolare la discussione scientifica sui concetti chiave e sulle sfide associate agli studi a braccio singolo per migliorarne la progettazione e la conduzione. Il documento di riflessione è stato adottato dal comitato per i medicinali ad uso umano (CHMP) dell’EMA con il contributo del comitato per le terapie avanzate (CAT), del gruppo di lavoro sulla metodologia (MWP) e del gruppo di lavoro sull’oncologia (ONCWP). A chiusura di questa fase, i commenti delle parti interessate saranno analizzati e considerati nel documento finale la cui pubblicazione è prevista nel 2024.
In questo speciale, col supporto incondizionato di Roche, abbiamo interpellato vari esperti, dai clinici ai tecnici del regolatorio, passando per gli statistici, per raccogliere i loro punti di vista sul tema*.
Paolo Marchetti, ordinario Oncologia Sapienza Università di Roma.
“L’introduzione di nuove modalità di valutazione delle evidenze scientifiche da parte degli enti regolatori rappresenta un traguardo, un obiettivo sicuramente auspicato da molti di noi negli ultimi anni. Ed è una grande opportunità iniziare una discussione all’interno di un Ente regolatorio tanto prestigioso come quello europeo, non solo per il mondo della ricerca e dell’industria, ma anche e soprattutto per i nostri pazienti, perché in questo modo si mira a superare quella rigidità che negli anni scorsi ha visto gli Enti regolatori entrare nella definizione della linea di trattamento in funzione delle evidenze dimostrate in un singolo studio, modificando sostanzialmente non solo la disponibilità di questo o quel farmaco, ma aprendo una discussione sul tema della valutazione degli studi a singolo braccio. E questo rappresenta sicuramente uno dei tanti esempi che mi auguro che l’Agenzia vorrà portare alla discussione pubblica.
“Infatti, il mondo regolatorio si trova a dover assumere decisioni importanti per i nostri Pazienti, per la nostra pratica clinica e per la sostenibilità anche economica dell’intero sistema sanitario in presenza di un rapidissimo aumento delle nostre conoscenze biologiche e cliniche, che rende pressoché impossibile la pianificazione di studi randomizzati come sola e unica soluzione e risposta alle necessità di valutazione delle terapie. Questa metodologia, alla base della medicina basata sulla evidenza, continuerà ad avere un ruolo importante nel riconoscimento del significato e del valore di nuove terapie rispetto a quelle convenzionali, ma sarà necessario identificare modalità più snelle che diano garanzia ai pazienti non solo dal punto di vista dell’efficacia, ma anche della tollerabilità e della tossicità, attraverso una procedura che può a volte non ricalcare pedissequamente quelle del passato”.
“Quando i farmaci erano pochi, gli studi potevano essere condotti con molta più semplicità. I dati derivanti da studi a braccio singolo, ovviamente, presentano alcune importanti criticità: selezione e caratteristiche dei pazienti che vengono arruolati, valutazione degli endpoint, alla indicazione di quali sono i livelli soglia per determinarne l’efficacia. Sicuramente hanno necessità di essere accompagnati dal maggior numero di informazioni possibili rispetto a quelle che attualmente vengono raccolte. I dati derivanti dall’esperienza clinica quotidiana hanno rappresentato in molti studi un aspetto importantissimo nel guidare e modificare la pratica clinica: abbiamo avuto effetti collaterali che non erano così presenti negli studi clinici randomizzati svolti su gruppi di pazienti estremamente selezionati, che sono invece comparsi nella valutazione di popolazioni molto più ampie di soggetti; come d’altra parte abbiamo avuto una riduzione di alcuni effetti collaterali, con una migliore efficacia nella pratica clinica, perché dopo gli studi clinici registrativi, anche i diversi centri oncologici hanno imparato a gestire meglio questi effetti collaterali evitando potenziali tossicità. Quindi è importante riuscire a riconoscere meglio quelle che sono le caratteristiche generali dei nostri pazienti, anche in un contesto di vita reale. Ma per fare tutto questo in maniera corretta, chiaramente non dobbiamo lasciarci guidare dall’improvvisazione. Ed ecco allora che possiamo utilizzare una fonte di informazioni diversa da quelle convenzionali come la Real Word Evidence. Per acquisire informazioni di qualità non possiamo pensare di definire la validità di un trattamento basandoci su uno studio a braccio singolo, raccogliendo retrospettivamente informazioni che derivano dalla esperienza di uno studio a braccio singolo. In questo senso diviene importantissimo lo sforzo che molte istituzioni di prestigio a livello internazionale, ma anche nel nostro Paese, stanno attuando nei confronti della possibilità di raccogliere in maniera prospettica tutte le informazioni cliniche che riguardano i singoli pazienti, non sotto forma di una risposta in PDF, ma come dati sorgenti attraverso l’immissione prospettica di queste informazioni in piattaforme specifiche come i data lakehouse. E questo va dai dati della radiologia con formati di immagine in alta risoluzione, alle immagini fotografiche in alta definizione, alla acquisizione di immagini istologiche attraverso la digital pathology, o dati di profilazione genomica in formati esportabili e ricchi di informazioni, solo per citare alcuni esempi che potranno in un imminente futuro essere integrati con l’acquisizione della valutazione da parte del paziente degli effetti collaterali (PROs) o di dati vitali raccolti da sensori indossabili. Perché tutto questo potrà consentire di integrare le informazioni in una maniera coerente? Perché avremo informazioni raccolte prospetticamente di elevata qualità e soprattutto con standard condivisibili a livello non solo nazionale ma anche internazionale, che consentirà la valutazione di tutti quegli effetti interferenti. In questo senso direi che diviene, a mio avviso, molto più importante studiare i motivi di resistenza piuttosto che i motivi per cui il paziente risponde per identificare le possibili interferenze negative con un trattamento corretto e potenzialmente efficace. Tutta questa ricerca di “altri” fattori che ci consentano di capire meglio l’insieme dei fattori interni o esterni al paziente che condizionano la sua risposta, non può prescindere dalla prosecuzione degli studi di biologia molecolare volti ad identificare meccanismi intrinseci di resistenza. Troppo spesso, soprattutto con gli studi a braccio singolo, ci focalizziamo unicamente sull’attività di quel farmaco, in quella specifica condizione caratterizzata da un punto di vista biologico da specifiche caratteristiche, dimenticando che poi intorno a questo c’è un paziente che assume altri farmaci e ricordiamo come l’interazione tra farmaci determina a volte una riduzione del tempo di controllo della malattia di molti mesi, molto di più del vantaggio atteso per i nuovi farmaci! E questo non perché il farmaco non sia efficace, ma perché il paziente, a causa di altre patologie concomitanti, sta assumendo altri farmaci che rendono l’azione del farmaco principale meno attiva. Quindi, in questo mondo di interazioni ancora totalmente inesplorate e per le quali abbiamo necessità di trovare strumenti non solo statistici, ma anche informatici di analisi di dati così ampi e numerosi, diviene un elemento fondamentale quello di riuscire ad associare i dati di Real World Evidence alla ricerca con studi a braccio singolo. In questo senso trovo positiva un’iniziativa parlamentare recente che sta valutando la modalità di modificare, ad esempio, l’uso secondario dei dati che nel nostro Paese viene di fatto inibito in qualunque struttura assistenziale perché non c’è un consenso specifico per quel tipo di utilizzo. Senza questo strumento tutto quello di cui parliamo è solamente una ipotesi di lavoro, mentre è reale quanto stanno realizzando i colleghi in altri paesi europei dove la lettura del GDPR sulla privacy sicuramente non è stato così rigido e così costrittivo come nel nostro Paese”.
Mauro Biffoni, direttore Dipartimento Oncologia e medicina molecolare ISS – Cts e Cpr Aifa
“Il documento EMA mi sembra molto utile a fare chiarezza sulla utilizzabilità degli studi a braccio singolo. Arriva in un momento in cui ormai questi trial hanno avuto un ampissimo uso, soprattutto in oncologia. Una recente review pubblicata su Jama Oncology su dati FDA nel decennio 2002-2021 individuava 176 studi a braccio singolo che hanno portato all’approvazione del farmaco, spesso con procedura accelerata. Nella metà dei casi si trattava di nuove molecole, quindi non nuove indicazioni per molecole già presenti. Questo fa capire che il processo è in atto ormai da tanti anni anche se ha avuto un’accelerazione nel periodo dell’ultimo quinquennio. Il documento evidenzia però che deve essere adeguatamente giustificato il ricorso ad un disegno a braccio singolo: viene dato per assodato che la capacità di individuare il reale effetto dei farmaci di un approccio classico, cioè lo studio randomizzato, è ovviamente superiore, quindi il single trial è uno studio di ripiego. Io penso che le agenzie e le autorità competenti debbano essere sufficientemente elastiche per accettare nuovi modelli di valutazione, perché il fine ultimo di tutti noi è quello di portare i trattamenti che cambiano la storia clinica di malattie importanti il più presto possibile alla disponibilità dei malati e quindi si debbano accettare questi nuovi approcci, che però non devono essere delle scorciatoie per avere invece delle valutazioni meno affidabili e arrivare con dei farmaci che poi diventano anche magari predominanti nell’utilizzo clinico senza avere alle loro spalle un’adeguata validazione formale di questi trattamenti. Vedo quindi un ambito di applicazione anche auspicabile, come alcune patologie rare, in cui non abbiamo assolutamente delle terapie efficaci, ma solo interventi di supporto, palliativi di alcune sintomatologie allo scopo di introdurre dei farmaci che invece abbiano un effetto sulla storia naturale della malattia. In questi casi ha meno importanza uno dei limiti degli studi a braccio singolo cioè l’assenza di un comparatore e la necessità di ricorrere a dati storici di riferimento il che non consente di quantificare chiaramente un effetto del farmaco. Questo può essere accettabile quando in una patologia sappiamo che l’andamento è uniformemente verso un peggioramento, verso addirittura il decesso in tempi che non sono molto variabili, allora li si riesce a capire effettivamente il vantaggio eventualmente apportato del farmaco, perché abbiamo un evento che da solo non avrebbe avuto alcuna possibilità o una possibilità molto limitata di essere evitato senza trattamento. Tutti questi aspetti nel reflection paper sono molto ben evidenziati e quindi, diciamo, si sdogana, anche se forse non c’era più bisogno di farlo, l’uso dei single arm trial. In questo caso, e più in generale in tutti gli studi clinici, secondo me, ci vuole uno sforzo anche delle aziende, e di altri che propongono gli studi per cercare di disegnarli in maniera da favorire il confronto con le alternative disponibili. Il riconoscimento della minore affidabilità degli studi a braccio singolo rispetto agli studi comparativi dovrebbe anche tradursi in una reciproca flessibilità delle aziende e delle agenzie che favorisca l’introduzione di farmaci promettenti con valutazioni che tengano conto delle incertezze delle evidenze e che siano modificabili successivamente, sulla base dei risultati che si ottengono nell’uso clinico”.
“Di recente una guida proposta dai direttori delle agenzie regolatorie europee, se non sbaglio ancora in consultazione, va a valutare come si può costruire un catalogo di sorgenti di dati affidabili, da indicare anche alle aziende, per costruire i propri studi, ma utile ovviamente per tutti, anche per i valutatori, per individuare la qualità delle sorgenti sulla base dei metadati che accompagnano i dati che poi possono essere utilizzati per i confronti. Nel caso degli studi a braccio singoli molto spesso è importante e necessario affidarsi a delle valutazioni di dati, già ottenuti, per esempio quelli osservazionali nelle malattie rare (es. su base genetica) E lì, appunto, bisogna avere dei dati di qualità affidabile sufficienti a capire quanto il confronto possa essere attuale. Infatti in alcune malattie molto rare, abbiamo delle storie naturali, osservate in periodi temporali molto lunghi, nei quali possono essere intervenute modifiche delle terapie di supporto che possono aver cambiato alcuni parametri, come per esempio il tempo di sopravvivenza, l’incidenza di complicazioni della patologia, che possono essere modificate, appunto, nel corso del tempo, e quindi fanno riferimento a una storia clinica naturale registrata molti anni prima. Questo interferisce fortemente nella valutazione di un nuovo trattamento”.
Giuseppe Traversa, primo ricercatore Centro nazionale Ricerca e valutazione farmaci dell’Istituto superiore di sanità (ISS)
“Il documento di riflessione EMA sui single arm trials è utile perché favorisce una discussione organizzata su questi metodi di studio, che però bisogna dire non rappresentano un elemento di radicale novità. Negli anni, sia l’EMA che la FDA hanno autorizzato numerosi farmaci sulla base di studi a braccio singolo, e cioè studi che non hanno un gruppo di controllo, o meglio, hanno un gruppo di controllo esterno. Quello che ha fatto in più l’EMA, con la pubblicazione di questo documento, è cercare di inquadrarli al meglio, di descrivere i bias che possono essere presenti e di discutere i potenziali limiti e i vantaggi. Un po’ come ha fatto anche la FDA in un documento di poco tempo prima. Ed è utile tenere presente che le prime due righe del documento dell’EMA ricordano un principio importante: quando si vuole valutare l’efficacia, il modello di studio di riferimento, il gold standard, è rappresentato dagli studi randomizzati. Questo per evitare equivoci, cioè per non dare l’impressione che dall’oggi al domani non servano più i trial clinici randomizzati perché bastano gli studi single arm”.
“Se da un lato il riferimento è rappresentato dagli studi randomizzati, qual è il caso in cui invece sono utili gli studi a braccio singolo? Ci sono sostanzialmente due situazioni. La prima riguarda un problema etico: non si può applicare la randomizzazione se uno dei due trattamenti è a priori così tanto migliore di un altro da rendere inaccettabile assegnare una parte dei soggetti a un trattamento più scadente. La seconda situazione è quella in cui i pazienti sono così pochi che la randomizzazione non garantisce il risultato di creare gruppi a confronto simili. Un esempio è quello delle terapie geniche per malattie ultra rare, come nel caso della leucodistrofia metacromatica, una malattia per la quale, nelle forme più gravi in Italia ci sono 1 o 2 pazienti l’anno. Nel momento in cui nei primi pazienti trattati all’interno degli studi di fase I si è osservato che la terapia genica migliora radicalmente la prognosi, su una malattia che in assenza di trattamento è rapidamente progressiva e con esito fatale, è chiaro che non sarebbe accettabile la randomizzazione. Ed è importante che in queste situazioni ci sia un modello di studio come sono questi single arm trial. Naturalmente c’è poi un’area grigia nella scelta fra gli studi a braccio singolo e quelli randomizzati. È chiaro che all’aumentare del numero di potenziali pazienti o se l’effetto atteso del trattamento non è così eclatante, diventa preferibile lo studio randomizzato. A fronte di malattie che non hanno uno sviluppo lineare e rapidamente progressivo, diciamo malattie che hanno forme di remissione, che sono fluttuanti nel tempo, mostrare delle differenze sulla base di uno studio che non ha un braccio di controllo concomitante di tipo randomizzato può essere pressoché impossibile”.
“I dati a cui facciamo riferimento nella Real World Evidence sono raccolti di routine nella pratica clinica corrente. Per fare riferimento ai dati disponibili in Italia, si pensi ai dati dei sistemi di monitoraggio delle prescrizioni farmaceutiche, di dimissione ospedaliera, di accesso al pronto soccorso, di assistenza al parto, delle vaccinazioni e così via. Tutte le volte che ci sono fonti di dati complete, o di cui è nota la qualità, questi dati sono potenzialmente utilizzabili. Quello che va valutato caso per caso è l’obiettivo dello studio, e a seconda dell’obiettivo, alcune fonti di dati sono più utili, altre meno. Qual è un possibile problema nell’applicazione della RWE nelle fasi successive all’autorizzazione? Se le stime relative all’efficacia non sono state prodotte in maniera affidabile prima dell’autorizzazione, non è facile acquisire quelle stesse informazioni, dopo, attraverso studi di Real World Evidence. Di nuovo valgono alcune delle considerazioni fatte per i single arm trial. Per quanto riguarda il problema delle stime di efficacia, studi a braccio singolo e RWE hanno un problema in comune: se siamo interessati a stimare differenze di efficacia relativamente contenute, di piccola dimensione, anche se clinicamente importanti, difficilmente uno studio di Real World Evidence è in grado di cogliere queste differenze. In altri termini, se un farmaco viene autorizzato e la differenza attesa di efficacia è limitata, con gli studi di Real World non siamo in grado di capire se quella differenza attribuita al trattamento è limitata, ma vera, o se non c’è alcuna differenza”.
Gli studi di Real World sono fondamentali per chiarire aspetti chiave, quali la storia “naturale” della malattia oggetto del trattamento, la rappresentatività dei pazienti inclusi negli studi clinici rispetto a quelli della pratica clinica, l’incidenza degli eventi avversi più rari che non possono essere messi in evidenza nel corso degli studi pre-autorizzativi, l’impatto di interventi regolatori. Ma se l’interesse è invece quello di determinare meglio l’efficacia, e le differenze attese sono piccole, con gli studi di Real World non riusciremo a garantire dati affidabili su cui basare le raccomandazioni che modificano la pratica clinica. Per questa finalità sarà comunque necessario disporre dei risultati di studi randomizzati. Sull’ultimo numero di Jama (8 settembre 2023), c’è un editoriale che richiama l’attenzione sul diverso ruolo della FDA rispetto a chi decide la rimborsabilità. E questo vale allo stesso modo in Europa: abbiamo l’EMA che decide se un farmaco è autorizzato sulla base del profilo rischio-beneficio positivo, e poi abbiamo chi si deve occupare del rimborso, le cui decisioni richiedono di effettuare una valutazione comparativa. Da questo punto di vista il nuovo regolamento HTA è utile perché mette subito l’enfasi su questo aspetto. Nel secondo ‘considerando’ del regolamento si afferma che l’oggetto delle attività di HTA è quello di effettuare analisi comparative e di valutare il valore aggiunto di una tecnologia sanitaria rispetto alle alternative disponibili. Si tratta di un obiettivo utile, perché l’EMA non effettua questa attività e nel tempo, per una stessa indicazione, possono diventare disponibili numerosi prodotti. Il problema è di riuscire a dare indicazioni su quale sia il valore comparativo dei diversi farmaci a disposizione. È inoltre utile che ci sia una forma di coordinamento europeo, anche per evitare che si replichi il lavoro in ciascun Paese o che ogni Paese richieda dati aggiuntivi differenti. Bisognerà poi verificare le modalità concrete di funzionamento del regolamento HTA, tenendo presente che sono previsti alcuni anni perché si vada a regime. L’Italia è al secondo-terzo posto a livello europeo per numero di farmaci approvati dall’EMA che sono rimborsati dal Servizio sanitario nazionale, e questo risultato è garantito con tempi che sono migliori della media europea. Bisognerà quindi fare attenzione che la valutazione congiunta europea (Joint Clinical Assessment) sul valore di un nuovo farmaco, e/o nuova indicazione di un farmaco già approvato, non crei ritardi evitabili nell’accesso da parte dei cittadini”.
Carlotta Galeone, ricercatore Centro di ricerche B-ASC Università Bicocca Milano
“L’obiettivo di questo reflection paper nasce proprio dal fatto che EMA ha notato un trend crescente nel tempo di richiesta di approvazione di nuove molecole supportate da prove basate su studi clinici a singolo braccio (fase I/II) e non da studi clinici controllati e randomizzati (RCT). L’RCT è il pilastro della ricerca scientifica e rappresenta il disegno di studio più solido per dimostrare l’efficacia di un nuovo trattamento. L’utilizzo di uno studio a singolo braccio può dimostrare l’effetto di un nuovo trattamento (confrontando le misurazioni di outcome clinici a fine studio rispetto a quelle al basale) ma non riesce a isolare in modo chiaro il vero effetto del farmaco, lasciando così sempre molta incertezza nel prendere decisioni. Senza un braccio di confronto e la randomizzazione è difficile poter quantificare l’efficacia di un nuovo trattamento, poiché non ci sono strumenti efficaci per escludere i principali bias che possono distorcere i risultati. Si pensi ad esempio alle target therapies testate in uno studio a braccio singolo in cui tutti i pazienti arruolati hanno una certa mutazione. Se tale mutazione oggetto di interesse fosse anche un fattore prognostico, i risultati sull’efficacia della nuova terapia provenienti da uno studio a singolo braccio sarebbero molto difficili da interpretare”.
“Con questo documento EMA ha l’obiettivo di mettere in luce le debolezze dell’interpretazione dei risultati di uno studio a singolo braccio, affrontando i principali aspetti metodologici per condurre al meglio questo tipo di studio clinico. Emerge chiaramente che si può arrivare alla registrazione di una nuova molecola utilizzando uno studio clinico a singolo braccio solo in alcune condizioni specifiche e non è la regola (come ad esempio nel caso di malattie rare, in casi dove il bisogno terapeutico relativo a quella patologia è estremamente alto). Nel testo viene riportato che nei documenti che l’azienda presenterà a EMA per la domanda di autorizzazione è assolutamente necessario che vengano esplicitati in modo chiaro i motivi per cui si è utilizzata una prova clinica a braccio singolo e non un RCT. Per quanto riguarda il protocollo di questi studi a braccio singolo, EMA specifica che non solo devono essere ben disegnati, ma che le analisi statistiche sono assolutamente da specificare prima dell’inizio dello studio (e non come capita spesso negli RCT prima dell’inizio delle analisi statistiche) e che sono da evitare le modifiche sostanziali al protocollo (come ad esempio la modifica dell’endpoint primario) poiché comporterebbero complessità e incertezza ulteriore nell’interpretazione dei risultati finali. Infine, in questo documento EMA accenna alla possibilità di poter utilizzare modelli di confronti indiretti fra trattamenti (mediante confronti più o meno strutturati) a sostegno di un’eventuale miglior vantaggio di efficacia della nuova molecola rispetto agli attuali standard di cura, senza però entrare in dettagli approfonditi sulle metodologie accettate. Si segnala un’importante novità in questo argomento: EMA esplicita che, se si vuole sostenere il valore di un nuovo trattamento attraverso comparazioni indirette, è necessario dichiararlo fino dalla prima stesura del protocollo dello studio a braccio singolo. Questo è un passaggio importante e innovativo perché costringe l’azienda a pensare a un piano di sviluppo di evidenze a supporto del nuovo farmaco in maniera precoce e precisa, esplicitando anche le fonti di dati esterni che si utilizzeranno. In questo documento non ci sono dettagli metodologici e le linee di indirizzo sulla miglior scelta dei modelli di comparazione indiretta (che sono in realtà una famiglia di modelli molto eterogenea fra loro), ma è auspicabile che nel prossimo futuro EMA si esprima anche su questi aspetti per permettere alle aziende di fare le migliori scelte di pianificazione delle evidenze a supporto di un nuovo farmaco, aiutando la stessa agenzia a prendere le migliori decisioni possibili per i pazienti”.
Giancarlo Castaman, direttore Unità Malattie emorragiche AOU Careggi Firenze
“Il tema è senz’altro interessante, soprattutto considerando che negli ultimi tempi si stanno sempre più sviluppando terapie per malattie rare, comprese le terapie geniche, per cui c’è bisogno di ripensare quelle che sono le caratteristiche di questi trial clinici a braccio singolo. Trial che in effetti hanno delle loro debolezze, che sono intrinseche ovviamente al disegno di questi studi, visto che sostanzialmente mancano della randomizzazione. Ma hanno anche dei vantaggi, potenzialmente proprio per le patologie rare, e cioè poter dare delle risposte in tempi anche ragionevolmente brevi. È chiaro che nel contesto di una valutazione degli studi, automaticamente i SAT generano una bassa qualità delle evidenze, proprio perché per definizione manca il concetto della randomizzazione e dei bracci di controllo. Documenti come quello dell’EMA servono soprattutto a richiamare quelli che sono pregi e i potenziali difetti oltre i quali non si dovrebbe andare per non creare una serie di dati che poi oggettivamente diventano estremamente criticabili. L’EMA discute proprio su come cercare di evitare i cosiddetti assessment bias e quindi cercare di delineare degli endpoint chiari e il più possibile oggettivi per validare al meglio i risultati di questi studi. Ci sono poi i dati della Real World Evidence, che però, nell’ambito di terapie sperimentali, che riguardano una popolazione molto limitata di pazienti, possono richiedere anche anni prima di produrre dei risultati che possano essere utili a un confronto rispetto a quella che è l’evidenza dei trial clinici standard. Qui i tempi potrebbero essere anche molto lunghi per l’estensione e l’avanzamento della RWE”.
“L’elemento più importante è che, ovviamente, si viene a limitare il numero e l’estensione dei criteri di inclusione ed esclusione, che sono tipici dei trial clinici. Naturalmente occorre prima di tutto garantire le condizioni di safety, che è il criterio principale prima ancora dell’efficacia, e quindi anche identificare accuratamente gli aspetti prognostici in termini di endpoint primari nella popolazione target. In sintesi, è un esercizio che richiede anche una certa esperienza. A seconda poi dell’area della medicina in cui noi ci troviamo a operare, possiamo avere dei criteri più facilmente individuabili. Pensiamo per esempio ai farmaci antineoplastici: è chiaro che qui abbiamo dei target ben precisi, che sono sopravvivenza, la remissione della malattia, eccetera. Ma nell’ambito, per esempio, di patologie rare come l’emofilia, è più difficile rendere oggettivo l’endpoint. Si parla di tassi sanguinamento annuali risparmiati e/o aboliti con la nuova terapia, ma questo aumenta la complessità perché molti pazienti sono in terapia domiciliare e il giudizio clinico spesso si basa su quello che ha il paziente stesso. Ci sono aspetti emergenti come i patient reported outcome (PRO), ancora non rilevanti ai fini regolatori, ma che stanno prendendo sempre più piede perché la percezione del paziente e non solo del clinico sta assumendo importanza. Insomma, ci sono dei nuovi linguaggi che noi dobbiamo adottare, ma dobbiamo anche mantenere sempre una scrupolosità nel valutare attentamente il disegno e i risultati di questi studi. E non è sempre così facile”.
*ll contributo degli OLs interpellati è stato reso a titolo gratuito